Sicilia

Terranova, il giudice che accusava i corleonesi

Nel film di Scimeca le storie parallele di magistrato e boss

PROVENZANO: BOSS PORTATO IN UFFICI MOBILE PALERMO

Redazione Ansa

(di Franco Nicastro) (ANSA) - PALERMO, 24 SET - Quando Luciano Liggio e i suoi amici corleonesi - Totò Riina e Bernardo Provenzano - trasferirono la mafia dalla campagna alla città e conquistarono il mercato della droga il primo a cogliere il senso delle nuove dinamiche di Cosa nostra fu il giudice Cesare Terranova. Fu lui a mandare a processo vecchi e nuovi boss in un'epoca in cui la mafia controllava indisturbata gli affari del sacco di Palermo e i grandi traffici criminali.
    Per questo Terranova fu ucciso assieme al suo collaboratore Lenin Mancuso, un poliziotto di provata esperienza che girava con lo schedario dei mafiosi latitanti o da tenere d'occhio. Era il 1979, un anno cruciale della storia della mafia: si era aperto con l'uccisione del giornalista Mario Francese ed era proseguito con la soppressione del segretario della Dc palermitana Michele Reina, l'agguato al capo della squadra mobile Boris Giuliano e infine con la morte di Terranova e Mancuso. La storia dei protagonisti di quella stagione, che aveva aperto la sfida allo Stato con metodi terroristici, è rievocata nel film "Il giudice e il boss" di Pasquale Scimeca che è anche autore della sceneggiatura con il giornalista Attilio Bolzoni. Gaetano Bruno interpreta Terranova, Peppino Mazzotta è Lenin Mancuso, Claudio Castrogiovanni dà il volto a Luciano Liggio. Il film, presentato a Palermo, segue il filo del confronto tra il giudice Terranova e il suo acerrimo nemico Luciano Liggio. Una rivalità che è all'origine delle inchieste di Terranova negli anni Sessanta culminate con i processi di Catanzaro e di Bari conclusi con alcune condanne per associazione semplice. Solo nel 1982 nell'ordinamento penale sarebbe stato introdotto il reato di associazione mafiosa.
    "Le inchieste di Terranova tracciavano il profilo di una mafia che stava cambiando pelle", dice Scimeca. "Ho cercato di ricomporre quel pezzo mancante della storia di Cosa nostra. E ho cercato di ricomporre il quadro dei rapporti con la politica, l'economia e la pubblica amministrazione. Ma c'è un altro tassello che va approfondito: Terranova e Mancuso, lavoravano fianco a fianco. E per questo dovevano morire insieme". Per Scimeca la mafia avrebbe potuto eliminare Terranova sorprendendolo da solo con la moglie magari durante le vacanze estive nelle Madonie. "Ma doveva morire anche Mancuso - è la tesi del regista - perché era la memoria delle indagini svolte con il giudice".
    Terranova e Mancuso avevano creato un modello investigativo che seguiva i lineamenti di un sistema criminale unitario di cui avrebbe parlato Tommaso Buscetta ma solo vent'anni dopo. Quel metodo investivo avrebbe ispirato le esperienze di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gaetano Costa, Rocco Chinnici.
    Il film, che esce il 25 settembre, anniversario del delitto, traccia anche il profilo umano del giudice e del suo collaboratore, osserva Francesca Terranova, nipote del magistrato, che ha partecipato alla presentazione con Carmine Mancuso, figlio di Lenin. due storie parallele nelle quali svolge un ruolo fondamentale Giovanna Giaconia, la moglie del magistrato protagonista, prima e dopo il delitto, di una forte testimonianza civile. (ANSA).
   

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