Cronaca

Caso Moro, la lettera del Papa alle Br e la correzione del 'don'

Quarant'anni fa, "liberatelo senza condizioni". I 'ritocchi' di Curioni

Redazione Ansa

Il comunicato numero sei delle Brigate Rosse, datato 15 aprile 1978, aveva gelato le speranze: il "processo politico" all'on. Aldo Moro era concluso ed il prigioniero era condannato a morte. Mentre nel Paese continuavano a scontrarsi il fronte favorevole alla trattativa con i terroristi e quello intransigente, in Vaticano papa Paolo VI viveva il suo tormento sapendo appesa ad un filo la vita del Presidente della Dc, nei riguardi del quale nutriva "paterna benevolenza", come scrisse al Pontefice lo stesso Moro dalla "prigione del popolo". Da quel tormento interiore nacque la lettera che 40 anni fa, il 21 aprile 1978, il Papa volle scrivere agli "uomini delle Brigate Rosse": un'implorazione, rimasta inascoltata, perché Moro fosse restituito "alla libertà, alla famiglia, alla vita civile". "Vi prego in ginocchio - supplicò il Papa - liberate l'on. Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni". Parole misurate una per una, che il Papa scrisse di suo pugno.

Ma prima che la lettera fosse resa pubblica, il Papa la lesse ai suoi più stretti collaboratori. E accettò alcune correzioni al testo che gli propose don Cesare Curioni, ex cappellano del carcere di San Vittore e allora ispettore generale dei cappellani carcerari, deceduto nel 1996, che, durante il sequestro Moro, proprio per incarico del Papa, si attivò per ottenere il rilascio dell'ostaggio in cambio del pagamento di un riscatto. Fu una telefonata notturna quella tra papa Paolo VI e don Curioni. "Don Cesare - ha raccontato due anni fa il suo segretario don Fabio Fabbri alla Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro - aveva ancora l'appartamento a San Vittore e io, quando potevo, invece di andare a casa il sabato sera, l'accompagnavo fino ad Asso", comune in provincia di Como, del quale don Curioni era originario, "e rimanevo su. C'era la mia camera, diciamo. Tuttora è lì l'appartamento. C'è un lungo corridoio su cui si aprono tutte le stanze.

La camera di don Cesare era quasi al centro, la mia in finale di questo corridoio". "Io sono a letto - ha raccontato ancora don Fabbri - perché si è fatto tardi. Oltre la mezzanotte mi sveglio perché ho sentore che c'è qualcosa che non va. Non sono stato svegliato da niente, ma succede. Penso che succeda anche a qualcuno di voi di svegliarsi perché c'è qualche cosa che... Vedo filtrare dalla mia camera, sotto la porta della mia camera, la luce nel corridoio. Mi precipito fuori, pensando che don Cesare non si sentisse bene. Pensavo che don Cesare si sentisse male, perché prendeva le pillole per il cuore. Invece, lo trovo a metà corridoio, seduto al tavolino che c'era a metà corridoio, quasi vicino alla sua camera, con un abat-jour. Lì c'era il telefono. Lo vedo rannicchiato con la cornetta in mano. Sta parlando. Pensai che fosse per le zie - aveva due zie maestre novantenni a Pavia - pensai che una delle due stesse male.

Scusate se faccio questa descrizione così pittorica, ma altrimenti non riesco a raccontarla per bene. Mi avvicino e sento: 'Sì, Padre Santo... Sì, sì, sì, Padre Santo. Guardi, io qui metterei così, farei così... No, la parola è troppo forte... è troppo leggera'. Padre Santo? Con chi sta parlando? mi chiesi. Era quasi l'una di notte. Stava parlando con il Papa, che gli ha letto tutto il comunicato 'agli uomini delle Brigate Rosse'. Don Cesare, in quei cinque, sei o dieci punti - adesso non lo so perché il ricordo è troppo distante - ha corretto il discorso... Due giorni dopo o il giorno dopo è uscito il comunicato ufficiale". Don Fabbri non ha saputo indicare con precisione quali furono le correzioni suggerite al Papa da mons. Curioni, né se fu quest'ultimo a suggerire la richiesta di liberazione di Moro "senza condizioni", che tante polemiche determinò. "No, questo non posso dirlo. Non ricordo - ha risposto don Fabbri alla commissione Moro -. Avrei dovuto sentire tutto il discorso del Papa e capire dove mettesse le dita don Cesare. Ricordo solo che in tre, quattro o cinque punti ha cambiato: ha messo un sinonimo - concluso don Fabbri - ha cambiato una parola. Di più non posso dire".

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