1.
Alle quattro del mattino i taxi attraversavano i ponti verso i distretti esterni prima di riparare nei loro lontani parcheggi sulla riva del mare, disturbando soltanto i coyote che pattugliavano le strade durante la loro migrazione dalle colline nelle tenebre. A quell’ora, i taxi recuperavano gli adolescenti dai locali, Max’s o il CBGB. A quell’ora i ponti erano boulevard sospesi nel cielo, insorvegliabili, illuminati dai bagliori dei progetti di costruzione. Un’altra notte, il ponte poteva essere pieno di gufi appollaiati. I taxi acceleravano.
La città era ormai diventata d’annata, almeno quanto bastava per rivelarsi provvisoria, un’affermazione incerta. E più peggioravano le cose, più parlavano di quanto voi poveri ragazzi aveste bisogno di uscire dai confini della città per “una boccata d’aria fresca.” Il Testimone Trasferito fu fin dall’inizio una creatura appartenente tanto al centro degradato della metropoli quanto alle cittadine che ogni abitante della metropoli vagheggiava e sognava, dove la vita si apriva respirando a pieni polmoni.
L’esistenza di una famiglia del centro era il contenitore di questo sogno. Carica i fratelli saturi di smog sulla station wagon parcheggiata in parallelo contro il cordolo dell’isolato cittadino e parti alla volta dell’interno, dei territori a nord. Queste spedizioni sudaticce e alienanti nel sogno punteggiavano i ricordi d’infanzia di T. Trasferito, mescolate allo struggimento, le cugine che potevi palpare su un sedile posteriore al drive-in o più tardi, nel nascondiglio vicino alla diga, dove ovunque scostassi l’erba c’erano mozziconi di sigaretta e linguette di lattine di birra.
La foresta non era solo fitta di storie naturali, ma altresì di fantasmi antropologici, vomeri arrugginiti e falci disseppellite insieme ai massi, vasi infranti con monete dell’era della Guerra civile e banconote marce. La macchia abbattuta per lasciar spazio al centro commerciale e al suo parcheggio non era foresta primaria, bensì un terreno disboscato in favore dei coltivi e poi abbandonato alle erbacce e agli insetti. Qui la popolazione umana era sfuggita al controllo e ancora sotto i livelli del diciottesimo secolo; le lucciole potevano essere i fantasmi di città morte. T. Trasferito, strappato alla propria casa, scopriva se stesso ovunque posasse lo sguardo. E non a torto.
2.
T. Trasferito subì un’espulsione dall’interno, affinché attendesse invece ai margini o presso la siepe. Era stato buttato fuori. Le sue mani erano zampe, forse quelle di una talpa o di una volpe, in ogni caso di una creatura senza uno specchio, né una voce con cui gridare domande tipo “Cosa sono diventato?” o “Vi prego, lasciate la porta socchiusa, o un bicchiere di latte sul davanzale.” In questa nuova forma pareva destinato ad attraversare un confine, consistente nell’oscurità e nel fango là dove terminava il prato.
T. Trasferito tenne il naso a terra per scoprire i signori di questo regno: i vermi rosicchianti, il marciume e il terriccio, i viticci o le dita di funghi che esplodevano attraverso il tappeto erboso tagliato a spazzola. Erano privi di lingua, e scrivevano invece le proprie storie nell’impollinazione, nella fioritura e nella putrefazione. E tuttavia lo sguardo di T. Trasferito rimase puntato sulle splendenti finestre, da cui era stato bandito. Non aveva capito che dopo aver subito il suo primo trasferimento da una casa non sarebbe stato accolto all’interno della successiva.
Immaginava che sarebbe stato costretto a scavarsi un cunicolo per rientrare, ma non aveva alcuna fretta. Qui il cibo era migliore, anche se la caccia più difficile, i successi più rari; i risultati più preziosi da ogni punto di vista. Ogni conoscenza degna di essere posseduta era per sua natura notturna.
Quando aveva spinto la gattaiola ed era sgusciato fuori fu solo per cercare un buon nascondiglio, da cui tenere d’occhio l’ingresso. In quei momenti era come se non stesse tanto guardando la propria casa quanto se stesso addormentato, e aveva la gioia di essere immerso in un sonno profondo e al tempo stesso vigilare attentamente su di sé. Quegli istanti fornivano indicazioni sul più ampio problema dell’essere, tanto per cominciare, un occhio.
Alla luce del mattino sul gradino davanti alla porta non trovavano che ali, merda e petali.
3.
Il cielo era una roccia sollevata, incardinata al lontano orizzonte. Gli insetti sotto di esso si stavano muovendo, se non che non erano insetti, bensì mammiferi come lui, che uscivano dai boschi, che portavano vestiti, la cui preoccupazione rituale per la vita quotidiana equivaleva a una filosofia. Questi esseri emergevano infine dalle loro case, convocati al suo cospetto mentre lui saliva verso il cielo e cominciava a fluttuare lassù. Il vento agitava a malapena gli alberi, senza disturbare l’erba falciata di fresco dal prato, che giaceva pesantemente, nel suo rigoglio, traspirando il proprio profumo nel pomeriggio.
La prima legge dei sogni in cui T. Trasferito volava era che nessuno gli lanciava mai neppure uno sguardo. Il vecchio problema, volo o invisibilità, era forse un falso dilemma. Se sognare significava volare, volare poteva significare essere invisibile. Lo sguardo delle altre creature restava radicato alla terra, come se gli occhi fossero piedi, ancora intenti a tastare la via, a imparare a muovere i primi passi.
La seconda legge era che per volare non aveva bisogno di alcun velivolo, di alcun timone. T. Trasferito era il timone, ridotto ai turbini e ai singhiozzi del getto a reazione. Seppur impastoiato, si librava, un bulbo oculare ancorato a terra come un aquilone.
Nonostante la tentazione di farlo, non si considerava superiore. Applicava la disciplina dell’attenzione amorevole alle anime sotto la roccia imperniata. Le loro voci troppo lontane perché potesse sentirle, si rannicchiavano contro la pressione dell’atmosfera, sforzandosi di rendersi comprensibili con l’organizzazione data alla superficie della terra. Le cesellature e le falciature, le intromissioni nel caos naturale della crescita e della decadenza. I sobborghi residenziali formavano un golfo circolare tra città e campagna, dove gli edifici parevano sprofondare davanti agli occhi, persino mentre venivano eretti. Questo aboliva lo spazio, ma instaurava al suo posto una spaventosa distanza mentale. Ogni luogo pareva scivolare via, verso l’assenza.
Potevi caricare l’auto di famiglia e partire verso il margine dell’universo conosciuto per avvicinarti infine a una casa esattamente identica alla tua, abbandonata solo un istante prima.
Al che, T. Trasferito poteva esser tentato di scivolare nel sonno in quel vento, solo per venir svegliato, nell’attimo in cui lasciava ciondolare il capo, da un certo intorpidimento alle dita dei piedi e delle mani. Alla fine, per quanto splendide fossero le seduzioni del sogno di volare, doveva atterrare e andare all’interno delle terribili mura incantate della casa e accettare una tazza di qualcosa di caldo per scrollarsi il gelo di dosso.
4.
La giornata è una vacanza di qualche genere, e tuttavia T. Trasferito non riesce a ricordare quale attività tale giorno esiga da lui. Stabilisce invece che lavorerà in giardino, falcerà nel frutteto, o spargerà concime fragrante sulla malerba che ancora spunta dal terreno. Fa troppo caldo per tagliare l’erba. O forse questo è il giorno a lungo procrastinato in cui affronterà il seminterrato, lo strano filtrare di musica e luce da un luogo dove non dovrebbe esserci che oscurità, e tubi e le giunture a perfetta tenuta, che portano rifiuti e fresco fuori e dentro. Elettricità, certo, ma non dovrebbe esserci luce. E tuttavia T. Trasferito non riesce a ricordare se il seminterrato sia fresco in una giornata simile, o se sia, come il solaio, una sauna. Una casa è un compromesso con forze più potenti di quanto non gli piaccia pensare.
Avanza e vede le linee del traffico intenso sull’autostrada principale, ridotte al silenzio dal vento sulle cime degli alberi. Dal fiume sale il suono di tamburi, e di tanto in tanto una battuta di musica metallica e dissonante. È come se la giornata seguisse un rigido copione, il caldo soffocante, i sandwich e le bibite fredde, e adesso le nuvole che si addensano e il fragore del tuono – tutto sembra parte di una qualche antica cerimonia. Aveva vissuto questa giornata centinaia di volte, e non era cambiato neppure un filo d’erba. Il fulmine balenò sulla veranda come un raggio di sole.
Era giunto il momento di parlare della luce che si riversava spontaneamente, senza essere stata invitata, proprio nei momenti in cui speravi di stenderti sul divano, nell’ora in cui si perdono le staffe per un nonnulla, nell’istante in cui il whiskey viene versato. L’ora del cocktail, una volta la chiamavano così. T. Trasferito adesso si ritrova incastonato, un insetto nell’ambra, abitante di un denso presente privo di porosità.
Le donne reagiscono in modo diverso dagli uomini, cominciano ad accendere le lampade, lasciano perdere quello che stanno facendo e vagano all’esterno mentre i loro mariti si immergono più profondamente nel compito a portata di mano. T. Trasferito non è certo l’unico a mettere insieme una sorta di offerta o monumento per difendersi dall’inesorabilità della luce, l’incursione del giorno.
La vita di famiglia si è rivelata simile agli arresti domiciliari. T. Trasferito si sveglia, sentendosi misteriosamente sul gradino infimo della scala e tuttavia anche un re nel proprio castello. In una storia che ha letto il re viene accecato e sollevato dai suoi sudditi, portato sulle loro teste fino al fronte, nel cuore della battaglia. I soldati in prima linea sono però sonnambuli e forse lo stesso re sta soltanto sognando di essere sveglio.
5.
T. Trasferito escogitò quella che gli sembrava una specie di soluzione: stava costruendo un modello in scala ridotta della città all’interno di essa. Perché se questo mondo di prati, siepi e lotti era un labirinto in cui si era smarrito, la risposta poteva essere tratteggiarlo dall’alto, chinarsi sulla propria versione, un diorama o una boccia di vetro, e studiare le sagome della moglie del figlio mentre erravano nell’oblio. Ciò gli offriva un modo per essere simultaneamente all’interno della cittadina e sopra di essa.
L’arte delle miniature non era difficile da padroneggiare. E così divenne un gigante con le pinzette, pennelli di due o tre peli per imprimere granelli di sabbia e di sale o chicchi di riso, per depositare una dose di bicarbonato del peso di un colibrì nel vulcano in garage per farlo spumeggiare, per accendere vampate di capocchie di fiammifero sul lontano tratto d’autostrada al fine di guardare il minuscolo pompiere affrettarsi verso la zona sinistrata delle dimensioni di un francobollo. Incapace di resistere, aggiungeva migliorie tanto inappuntabili da essere subliminali, per esempio un vasto parcheggio sotterraneo. Intorno a esso, la cintura arborea fu rimpolpata, ombreggiando vie pedonali splendidamente pavimentate e orlate dalle begonie. Chi mai avrebbe qualcosa da ridire sulle begonie?
Giunse quindi la meravigliosa scoperta che il suo modello era abbastanza grande perché potesse entrarci fisicamente. Se dispieghi la mappa sul territorio potresti riuscire a dimenticare quale sia l’originale. T. Trasferito, con il nome che gli avevano dato, decise di candidarsi a sindaco della città. Si rase il travestimento da hippie, si schiarì energicamente la voce un paio di volte in pubblico e scoprì che non c’era nessuno a sfidarlo. In effetti, non ebbe rivali, sulla piattaforma del Sono stato io a mettere tutti noi in questo pasticcio, dovrei essere in grado di tirarci fuori! Adesso ogni parola che usciva dalla sua bocca sembrava una battuta, che fosse o meno sua intenzione. Abbiamo solo due stagioni in questa città, inverno e costruzione.
In tutte le piazze su cui si svolse la sua campagna, nei campi di Marte o da baseball, scorgeva i buchi nelle siepi o il cerchio di piume insanguinate; ogni volta che bussava a una porta e qualcuno lo accoglieva nel proprio soggiorno, notava le eruzioni del suolo da sotto le assi del pavimento; tutte prove della sua fase iniziale come animale scavatore, un invasore dai boschi. Cosa gli era passato per la testa, quando si era ostinato a ricreare fino all’ultimo particolare? Cominciò ad augurarsi la sconfitta, ma non si presentò alcun avversario.
A questo punto, quando si avvicinava all’apice della sua autorità d’orco, questo potere di dare sfogo ai propri dolori e desideri elefantiaci nelle stanze delicate come porcellane, T. Trasferito cominciò a struggersi per il periodo precedente, quando non era stato nulla di più che un occhio su una spiga di frumento nel campo, o sulla ghiaia in fondo all’acquario. Una spia nella casa del proprio stesso amore. Una mosca nella pomata, una canzone da sotto il parquet.
Si bandì da sé dalla città, dato che le possibilità che qualcuno lo facesse al posto suo non sembravano molto concrete.
6.
Nei viaggi notturni c’è una misteriosa urgenza. Appaiono segni di abitazioni umane – una lampada gialla a una finestra, uno steccato bianco – per poi sprofondare di colpo nelle tenebre. Mentre rallentava per attraversare la cittadina, comprese di non essere realmente solo nell’oscurità. La gente se ne stava seduta in veranda, persino a quell’ora, i volti che balenavano alla luce delle stelle filanti o dei razzi ad acqua che di tanto di tanto accendevano. A quanto ne sapeva, non era una qualche festività, ma l’outlet di fuochi d’artificio sul confine dello stato stava chiudendo i battenti, ormai da quasi due anni. Non c’era chi non si divertisse a sparare un razzo ogni tanto, rischiarando un piccolo quadrante della notte.
Dovette sterzare per evitare un animale raggomitolatosi a dormire sulla strada, ma quando accostò e scese dall’auto per dare un’occhiata, scoprì che era confortevolmente rannicchiato in una profonda buca nella superficie spaccata dell’asfalto. Le ruote potevano passarci sopra tutta la notte lasciando quella bestiola, il ghiottone o ermellino, per sempre indisturbato.
Quando svoltò nella sua via c’era luce nel cielo, ma la notte aderiva ancora a tutte le superfici delle case e dei prati come uno strato di neve. All’improvviso, sentì l’urgente bisogno di rientrare in casa. Cominciò a correre, inciampò, e di colpo di ritrovò al contempo oggetto e osservatore. Un penoso disagio si impadronì dell’oggetto; l’osservatore sorrise senza fare alcun commento. Non aveva mai sperimentato un simile silenzio interiore. Era sempre presente, coperto dalle azioni dei vivi? Non si ricongiunse a se stesso che quando arrivò in cucina.
Gli utensili erano tutti al loro posto, lì dove li aveva lasciati, il bollitore del caffè ancora abbastanza tiepido da spingerlo a riempirsi una tazza. Il suo piatto era nel lavandino, ma nessuno aveva aperto l’acqua del rubinetto. Le uova avevano ancora un discreto profumino.
Dai gradini del vecchio argine osservò le automobili che toccavano il ghiaccio nero con voluttuosa lentezza e poi si piegavano, come spinte da un dito invisibile, raschiando contro il lato del ponte. Inutile gridare. La stessa coperta bianca che mascherava il ghiaccio assorbiva le urla come il silenziatore di una pistola. Eri saturo di simili informazioni ogni giorno, se solo eri disposto a lasciarle passare e a sopportare. C’erano parecchie cose sulle altre persone che non aveva mai capito, non tanto la questione delle motivazioni o dei fini, bensì il mistero dell’autorità, dell’importanza. E tuttavia era appena riuscito ad aprirsi a ciò che aveva da offrire la normalità: l’aiuto a mettere in moto l’auto con i cavi in una fredda mattina in cui la tua batteria era morta, una fetta di torta riscaldata, la metodica scrupolosità con cui lo spazzaneve rendeva visita ai vialetti d’accesso delle case ostruiti dalla neve, raschiando nella notte.
La gente fa praticamente qualunque cosa se glielo si chiede educatamente.
7.
Attraversò in volo l’oceano in cerca di rifugio o esilio. T. Trasferito sprofondò tra cumuli di nubi e notò le grigie stratificazioni della città costruita col cemento e la sabbia, i montanti e la tela da vele, visibili già mentre le ruote slittavano a terra e il suo aereo rullava fino al terminal. In quelle prime settimane nella città straniera trovò tuttavia continuamente scuse per rimandare il contatto. Le rovine si ergevano sopra il traffico sibilante come un monumento alle speranze condannate al disinganno. Potevano esserci dei doveri connessi a una visita di questo genere. Voleva per così dire scoprire quanto potesse puntare prima di varcare la soglia del casinò. Prima di appoggiarsi al feltro del tavolo e portarsi il dado alle labbra per propiziare un lancio fortunato.
In questo nuovo luogo, T. Trasferito si sentiva come se fosse appena diventato visibile, inseguito dai paparazzi, infilato in uno smoking involontario, tenuto d’occhio da attricette o assassini nella lobby di marmo del proprio albergo. Nonostante ciò, fintanto che evitava le rovine, nessuno lo importunava, nessuno faceva la prima mossa. Errori e difetti non restavano attaccati come capitava a casa; poteva vagare per continenti e lingue, camminare intontito, socchiudendo gli occhi davanti a mappe spiegate. Forse sarebbe riuscito a esistere a questo livello per settimane e mesi senza biasimo né atroci conseguenze.
Tuttavia, la città stessa lo esortava a visitare le rovine. In un posto di cui non comprendeva la lingua parlata, gli edifici si esprimevano con la chiarezza di qualunque voce umana. Certi colonnati quasi ululavano, sulle frequenze di un fischietto per casi, sussurrandogli della sua città perduta, delle palazzine di malta e arenaria. Accampavano diritti su T. Trasferito, lasciando intendere che non era altro che una parte raminga della loro tribù o del loro branco. L’architettura poteva essere in questo senso ferina, qualcosa che un tempo era stato sotto il controllo del padrone umano ma si era adesso ritirato al margine del fuoco, là dove le ombre guizzavano.
Cedendo al richiamo, un pomeriggio T. Trasferito si staccò dai suoi accompagnatori, senza neppure chiudere la porta della limousine, e risalì la collina a piedi. Il mutamento fu immediato, il suo occhio interiore risvegliato. Nella luce del cielo che si abbassava la città era prossima e scolpita, senza la bianca cappa estiva, i suoi miraggi di distanza e prospettiva. Lasciò che le linee si raccogliessero in un’immagine unitaria, le cime dei colli orlati da chilometri di antiche mura, spalti merlati crollati, quella particolare, meditabonda mestizia.
T. Trasferito superò l’impalcatura e scese i gradini, sentendo una lingua dopo l’altra, ricca, aspra, misteriosa, forte. Le voci dello sguardo fisso. Ticchettavano quasi impercettibilmente – o forse era il ticchettio dell’orologio atomico della sua attenzione, che rimbalzava contro i cieli e aveva occhi solo per la propria casa sulla terra, tra i mammiferi. Le voci pulsavano come lucciole, compagni accettabili delle creature più grandi. Si mise al loro servizio, riconoscente.
Jonathan Lethem
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