"Essere un collaborazionista ebreo è una contraddizione in termini": non corre il rischio di essere frainteso Claude Lanzmann, soprattutto quando gli viene chiesto di leggere e interpretare la storia. Classe 1925, un carattere burbero e schivo, il regista e intellettuale francese, autore nel 1985 dell'epico e monumentale film "Shoah" (quasi dieci ore di film che raccontano lo sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale), è a Roma per presentare il libro "L'ultimo degli ingiusti" (Skira), tratto dal suo omonimo documentario del 2013, nel quale egli riabilita la figura del rabbino Benjamin Murmelstein. Accusato di collaborazionismo con il regime nazista, e di aver tradito i suoi stessi fratelli nel momento più terribile per il popolo ebreo, Murmelstein, uno dei principali esponenti della comunità ebraica di Vienna e dal 1944 ultimo Decano del Consiglio degli Ebrei nel finto "ghetto modello" di Theresienstadt, cercò in realtà di arginare quanto possibile i propositi di sterminio portati avanti da Adolf Eichmann.
"Ritengo impossibile per un ebreo condividere pienamente l'ideologia nazista e l'antisemitismo: ecco perché mi sono interessato a Murmelstein", ha dichiarato ieri Lanzmann di fronte alla stampa, tornando alla memoria al 1975 quando, giunto a Roma per raccogliere materiale per "Shoah", realizzò una lunga intervista proprio al controverso rabbino, che viveva in esilio nella Capitale dopo il rifiuto di Israele di dargli accoglienza.
Quell'intervista, che il libro riporta nella versione integrale, a pochi giorni dal Giorno della Memoria torna prepotentemente d'attualità rivelando una vicenda ancora ben lontana dall'essere conclusa. "Io ho voluto incontrarlo perché c'era una voce unanime su di lui, avevo letto solo cose negative da parte degli storici dell'epoca", ha spiegato, "in quella settimana nacque un rapporto fra di noi: non lo assecondai, gli feci anche domande difficili, ma fui colpito dal suo intelletto, dall'umorismo, dal rapporto con la verità, dalla sua buona fede profonda".
Eppure, sebbene assolto da ogni accusa dopo la guerra, Murmelstein fu sempre guardato con sospetto, forse perché in fondo ritenuto colpevole per essere l'unico decano dei ghetti a sopravvivere. Per questo nella Capitale, il rabbino subì il disprezzo della ricca comunità ebraica romana, che mai lo aiutò, neppure quando versava in evidenti difficoltà economiche. Ed è qui il nodo più polemico del libro. Come ha affermato Gad Lerner, intervenuto al dibattito durante la presentazione del volume, "l'attacco alla comunità ebraica e al rabbino capo di Roma (che rifiutò a Murmelstein la sepoltura al centro del cimitero ebraico relegandolo in una zona periferica) è rappresentato dalle prime due pagine del libro, scritte oggi a 40 anni dall'incontro con Murmelstein". Basta leggerne alcuni passi per comprendere il senso di questa operazione letteraria: sia il film che il libro non solo dimostrano che Murmelstein non fece un patto con il diavolo nazista, ma, si legge nella breve introduzione, "riparano al male imperdonabile che gli è stato fatto e mostrano in tutta la sua lampante chiarezza la stupidità delle accuse dei suoi correligionari".