Per una volta il verdetto dei giurati dell'Academy che hanno assegnato le più ambite statuette del mondo dello spettacolo sembra guidato da una regia collettiva tanto involontaria quanto coerente. La premiazione dice che i votanti cercavano un'immagine del cinema, e in particolare di quello americano, consolatoria anche nell'affrontare le durezze della realtà, emotiva in quanto capace di parlare al pubblico adulto più che a quello dei teenagers, realista ma nel rispetto dei codici narrativi tipici di una fabbrica dei sogni.
Il trionfatore "Birdman" del messicano Aleyandro Gonzalez Inarritu è la fotografia di un passaggio di consegne ideale dal cinema dei supereroi a quello degli sconfitti con onore ed è anche, per la rimarcata origine messicana del suo regista una "carezza" dell'Oscar a quel popolo di migranti su cui nei secoli si è costruita l'America. Forse chi ha deciso il diluvio di statuette (abbastanza prevedibili) per "Birdman" non ci ha pensato ma questo premio viene a ruota con quello dell'altro messicano Alfonso Cuaron che un anno fa sullo stesso palco veniva festeggiato per "Gravity": due film che hanno pienamente a che fare con la mitologia di Hollywood ma che in entrambi i casi segnano una differente consapevolezza.
La voglia di impegno del cinema americano di oggi (che, si ripete, sembra guardare più ai cinquantenni che ai diciottenni) accomuna tutti e quattro i premi per l'interpretazione: una fragile intellettuale ammalata di Alzheimer (Julianne Moore), un genio prigioniero della malattia (il britannico Eddie Redmayne nei panni dello scienziato Stephen Hawkins), la tenace e combattiva madre del film-verità "Boyhood" (Patricia Arquette) e il tirannico allenatore di geni dell'outsider "Whiplash" (J.K.Simmons).
Questa attitudine generale degli Oscar 2015 è solo in apparente contrasto con il grande sconfitto della serata Clint Eastwood di "American Sniper". In realtà, il film pur con i suoi stratosferici incassi e il generale consenso critico e patriottico è arrivato fuori tempo massimo e anziché attirarsi favori ha suscitato diffidenza per la controversa interpretazione del suo monito pacifista. Più o meno quel che è accaduto nella categoria del miglior film straniero dove l'opera più attuale e attesa ("Timbuktu" dell'africano Sissako) ha dovuto cedere il passo al più tradizionale e rassicurante "Ida" sui crimini del comunismo nella Polonia di ieri raccontata da Pawel Pawlikowski.
Per trovare autentiche sorprese a questo verdetto inappuntabile quanto ovvio bisogna sconfinare nel premio al miglior documentario (l'esplosivo "Citizen Four" di Laura Poitras sulla vera storia di Edward Snowden) oppure nei riconoscimenti tecnici che con i costumi di Milena Canonero hanno fatto trionfare l'eleganza senza tempo di "Grand Budapest Hotel" firmato da un Wes Anderson in forma smagliante (in tv domani su Sky Cinema 1 HD alle 21,10).
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