Se una cosa ci ricorda questa pandemia è che la natura è sempre più forte, più resistente dell'uomo. Non per nulla molti scrittori (e poi drammaturghi, registi di film e artisti diversi) da sempre hanno raccontato e creato storie esemplari, tra cronaca e metafora, su pestilenze, epidemie e altri cataclismi. Allora questi romanzi, queste cronache di day after, queste supposizioni di arrivo al limite e di salvezza in extremis, con cui viviamo una qualche consonanza, possono essere qualcosa che ci aiuta a capire e riflettere su quel che ci sta accadendo e magari a metabolizzarlo in qualche modo, riuscendo a sapere un poco di più chi siamo.
Certe volte, per riuscirci e non spaventarsi, serve vedere il lato paradossale delle cose, quanto di buffo può esservi anche in alcuni aspetti grotteschi di una tragedia. E' quel che fece Boccaccio, raccontando la peste del 1348 per introdurre una serie di racconti comici. Due secoli dopo a lui non a caso si rifà Niccolò Machiavelli in una lunga lettera all'amico Lorenzo Strozzi.
È il calendimaggio del 1523, il giorno in cui in tempi normali, si festeggia a Firenze il ritorno della primavera tra canti, balli,tornei, ma ora la peste infuria. La 'moria', come veniva chiamata, era scoppiata nel '22 raggiungendo il suo massimo a primavera del '23. I cittadini ricchi, e Lorenzo è tra questi, si erano rifugiati nelle ville del circondario, per cui fu necessario creare una guardia di 50 fanti ''perché le botteghe e case non fussino rubate''.
All'amico in villa l'autore del ''Principe'' scrive di come la città vive quel calendimaggio e sulla falsariga d'inizio del Decamerone, descrive i morti dappertutto, le attività sospese, la giustizia non amministrata, l'assenza di solidarietà umana e persino familiare, e per le strade di turbe di straccioni, tra furti e omicidi. Dopo tale descrizione generale, l'io narrante, che tale è trattandosi di opera letteraria, descrive ciò che vede in giro e entrando nelle chiese, alternando appunto a visioni tragiche fatti comici dal sapore grottesco, in un gioco quasi parodistico verso appunto i registri del Boccaccio, come fa notare Pasquale Stoppelli, curatore della ''Epistola della peste'' (Ed.Storia e Letteratura, pp.80 - 17,10 euro).
In S. Maria Reparata ecco un frate confessore con piedi e mani legate per non cadere in tentazione. Davanti a Palazzo della Signoria, tra bare e barelle, trova il banditore del Comune che, non avendo i vivi necessari, convoca a far da testimoni all'entrata in carica dei Magistrati anche dei morti. A Santa Croce ci sono becchini che danzano in tondo cantando ''Ben venga il morbo'' a parodia del ''Ben venga maggio'' di Poliziano. E così via, pure incontrando un uomo a S. Trinita perso appresso a una dama, il quale. in quanto innamorato. si ritiene immunizzato da ogni male e insiste per convincerlo a innamorarsi veramente anche lui, sino all'arrivo a S. Maria Novella dove, forse sull'onda dell'incontro precedente, viene ammaliato da una giovane vestita a lutto, che avvicina, difende dall'assalto di un frate e riesce a accompagnare a casa. Da quel momento non pensa che a lei, fattasi sera e tornando dalla moglie, dove a distrarlo lo aspetta la scrittura di una commedia. Stoppelli trova arguti paragoni tra atmosfere e alcuni personaggi col mondo della ''Mandragola'', e dimostra poi con abbondanza di paragoni, dati e intuizioni la paternità di Machiavelli di quest'epistola attribuita invece da tempo a Strozzi.
Un gioco simile, anche se più garbato, lo propone Gabriel Garcia Marquez in quella storia appassionata d'amore lunga una vita e con inevitabili lati ironici, tra il telegrafista Florentino Ariza ''dagli occhi spaventati'' e Fermina Daza con la sua ''andatura da cerva'' in ''L'amore al tempo del colera'' del 1985 e ambientato in Colombia negli anni '20 del Novecento.
''L'epidemia di colera, le cui prime vittime caddero fulminate nelle pozzanghere del mercato, aveva provocato la più grande mortalità della nostra storia''. I cadaveri si ammassano e non trovano più posto e la cattedrale, con gli ''effluvi delle cripte mal sigillate, le cui porte si riaprirono solo tre anni dopo, all'epoca in cui Firmina vide da vicino per la prima volta Florentino alla messa di mezzanotte''. Di quel periodo il dottor Urbino fu eroe e poi vittima, avendo ideato e diretto di persona ''per decisione ufficiale la strategia sanitaria, ma finendo di intervenire in tutti gli affari d'ordine sociale al punto che, nei momenti più critici della peste, non sembrava esistesse autorità oltre a lui'', un po' come oggi virologi e epidemiologi.
Firmina è la moglie del figlio di Urbino, medico anche lui, e quando resta vedova viene avvicinata dal suo contrastato e antico amore, Florentino, che confessa, dopo "cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese" di essere ancora innamorato di lei. Davanti a questo c'è chi è ''turbato dal sospetto tardivo che sia la vita, più che la morte, a non avere limiti''.
A suo tempo il padre aveva trascinato Firmina lontano e lei riuscì a restò un po' in contatto con l'amato grazie alla solidarietà dei suoi colleghi telegrafisti lungo l'itinerario.
Negli anni, quando lui per esempio un giorno si ubriaca di Acqua di Colonia per ritrovare profumi e sapori dell'amata, solo freddi incontri casuali in occasioni ufficiali. Alla fine, lei resiste un anno dopo la nuova dichiarazione, finché accetta una crociera su un battello sul fiume in mezzo a una foresta disboscata e villaggi infestati dal colera, ma nello splendido isolamento della suite accanto a quella del capitano, che pagano per fare girare sul fiume senza attraccare mai per evitare il morbo, i due ultrasettantenni fanno finalmente l'amore, risentendosi giovani: ''anche lui cominciò a spogliarsi nella penombra, gettandole addosso ogni indumento che si toglieva, e lei glieli ributtava indietro morta dal ridere''. (ANSA).