Se avesse continuato a lavorare con i registi americani che lo adoravano (Sidney Lumet negli anni '60, Robert Altman e Ted Kotcheff dieci anni dopo), oggi avrebbe anche lui una stella sulla Walk of Fame di Hollyood a celebrarne la gloria nel giorno del suo 80/o compleanno. Gigi Proietti aveva tutto per farsi adottare alla Mecca del Cinema: era bello, aitante, colto ma popolare, dotato per le lingue e gli accenti, padrone di una tecnica verbale senza paragoni, caratterista senza eguali.
Debuttò nel 1964 con una particina da poliziotto grazie a Ettore Scola in "Se permettete parliamo di donne" e due anni dopo, grazie alle prime prove televisive, si accorsero di lui a Cinecittà. Lo chiamano vecchi maestri e bravi artigiani come Alessandro Blasetti ("La ragazza del bersagliere") e Franco Indovina ("La matriarca" con Catherine Spaak); gli dà spazio Tinto Brass con il rivoluzionario "L'urlo" (primo ruolo drammatico in carriera); lo valorizza Mario Monicelli che nel '74 lo vuole addirittura in tre parti (Pattume, Colombino e nascosto dietro la maschera della Morte) in "Brancaleone alle crociate" (1970). Tre anni dopo ha una grande occasione con "La Tosca" di Luigi Magni in cui veste i panni di Cavaradossi ed è un peccato che il sodalizio tra i due migliori interpreti della "romanità" non abbia seguito per i diversi caratteri di attore e regista.
In compenso Proietti si confronta con autori più "intellettuali" come Elio Petri ("La proprietà non è più un furto") o Alberto Lattuada che in "Le farò da padre" lo conferma protagonista drammatico. Ma è grazie alla televisione, e in particolare a Ugo Gregoretti con cui aveva già lavorato nel "Circolo Pickwick", che dispiega tutto il suo talento: nel 1974, due anni prima di Kabir Bedi, sfoggia il turbante di Sandokan in un memorabile "Le tigri di Mompracem" in cui duetta con le infiammate pagine di Salgari e la cronistoria minuta delle disavventure dello scrittore.
Del 1976 è il suo film di culto: "Febbre da cavallo" di Steno col personaggio dello scommettitore sfortunato Bruno Fioretti detto Mandrake. Per i produttori sarebbe la spalla di Enrico Montesano, ma a svettare è proprio il suo personaggio che (si veda la celebre arringa in tribunale) diventa un modello attoriale, tanto da spingere Carlo Vanzina (figlio di Steno) a riproporgli il ruolo nel sequel del 2002. "Febbre da cavallo" è un titolo emblematico della carriera cinematografica di Proietti. Il film nasce, senza speciali ambizioni, come una pellicola di genere e all'uscita non viene quasi neppure recensito sui giornali: si scava invece una nicchia popolare anno dopo anno fino a diventare un modello della comicità romanesca e universale.
Luigi Proietti in arte Gigi ci lascia una cinquantina di film, molto spesso accettati per puro divertimento come in "Casotto" di Sergio Citti in cui viene preso a schiaffi da Catherine Deneuve (nella scena l'attrice perse l'anello di Bulgari che il produttore le aveva regalato come simbolico compenso) o come quando Bertrand Tavernier lo sceglie per il Cardinal Mazarino in "La figlia di D'Artagnan", sorridente omaggio al cinema italiano di cappa&spada. Negli anni ha lavorato spesso con Mario Monicelli (che aveva per lui un affetto quasi paterno) e i fratelli Vanzina che lo consideravano uno di famiglia. Il suo ultimo ruolo gli si attaglia a pennello, il burbero Mangiafoco nel "Pinocchio" di Matteo Garrone: quasi irriconoscibile dietro il pesante trucco di scena, lancia sguardi fiammeggianti e bofonchia maledizioni e blandizie, come per l'ultimo scherzo di una maschera da commedia dell'arte.
Proietti al cinema, un caratterista di genio
Da Magni a Steno a Garrone, le sue maschere diventate un modello