Bruce Springsteen compie 75 anni, anni pieni di tutto, fama, sudore, povertà, ricchezza e sperimentazione. Impossibile racchiudere una vita così densa in una narrazione che deve rispettare i tempi cinematografici ma ci prova il biopic firmato da Thom Zimny: Road Diary: Bruce Springsteen and Street Band, presentato al Festival Internazionale del Cinema di Toronto. Nel documentario ci sono le sessioni di prova della band degli esordi, la carriera musicale e l’umanità della malattia nel racconto della moglie del Boss Patti Scialfa che rivela un dramma finora rimasto segreto: soffre da qualche anno di mieloma multiplo, un cancro del sangue diagnosticatole nel 2018 che ancora non ha una cura definitiva.
Per i suoi 75 anni, la sorella Pam ha pubblicato sul profilo Instagram del fratello un video celebrativo accompagnate da solo 5 parole: "Can you feel the spirit?"
Doverosa una digressione anagrafica per capire chi è Springsteen e dove si è formato. Nato a Freehold, nel New Jersey, il 23 settembre 1949, è un cantautore atipico che ha saputo interpretare con la sua musica le crisi americane, dagli anni di Nixon al pantano vietnamita, alla tragedia delle Twin Towers. Nella sua vita non ha fatto altro. "Nei miei brani racconto la vita dei lavoratori anche se non ho mai lavorato in vita mia" confessò anni fa con la sua autoironia. Si è formato nei locali del Jersey Shore e della scena musicale di Asbury Park degli anni '60. E lì, durante session che finivano all'alba, che ha imparato i fondamenti del mestiere e soprattutto ha imparato a memoria lo sterminato repertorio su cui ha costruito parte della sua leggenda. La sua gioventù è corsa via tra sogni di rock'n'roll e pochi soldi, in una situazione di naturale integrazione etnica che è l'opposto dell'America di Trump e delle teorie sovraniste.
L'arrivo al successo non è stato facile: una gavetta dura, l'esordio discografico nel 1973, dopo un provino con il leggendario John Hammond, l'etichetta di "nuovo Dylan". Il contratto è per tre album, i primi due non vendono bene. Si arriva al 1975, l'ultima chance. Se l'album va male lo aspetta un futuro da promessa mancata. All'orizzonte c'è un solo concerto. Durante le registrazioni cambia produttore, due membri della band lo abbandonano, nella E Street Band entrano il suo vecchio amico Little Steven Van Zandt, Roy Bittan e Max Weinberg. Bruce vuole un suono che ricordi il Wall of Sound di Phil Spector: sono session interminabili, estenuanti. Ma le sliding doors girano per il verso giusto e il risultato è "Born to Run", uno dei dischi più importanti della storia del rock. Non è un caso che "Born To Run" sia anche il titolo della sua autobiografia. In realtà da quel momento non tutto sarà così facile. Neanche dopo l'esplosione di "Born in the Usa", l'album che gli consegna lo status di super star e una popolarità che ha raggiunto ormai i quattro angoli del mondo.
Bruce è un uomo inquieto incapace di fare compromessi, di cavalcare il successo riproducendo stilemi collaudati: i suoi fan sono abituati a svolte impreviste, momenti di pausa, avventure in altri ambiti, dischi dolenti e oscuri, prove acustiche. Ed è proprio la sua coerenza, la sua naturale empatia, la capacità di fare del rock'n'roll uno strumento di redenzione che lo hanno reso un leader morale. C'è una cosa che ha accompagnato Springsteen in tutta la sua carriera: la sua irresistibile capacità di performer, uno dei più grandi mai apparsi su un palcoscenico. Non sbaglia chi dice che il mondo si divide tra chi ha visto il Boss dal vivo e chi no: i suoi concerti sono leggenda, un rito laico della durata minima di tre ore abbondanti (in Italia ha superato quattro ore) in cui c'è una comunione totale tra la platea e il palco. Bruce celebra questo rito con la forza di chi sa che il palcoscenico è l'unico posto in cui si senta davvero al sicuro. E per chi l'ascolta è cibo per l'anima.
Il 2024 è stato anche l’anno del 40mo compleanno di Born in The USA. Quando uscì fu un trauma per Bruce Springsteen e per buona parte degli springsteeniani. Probabilmente né Bruce né i suoi fan erano preparati a quel successo clamoroso che ne fa uno degli album rock più venduti della storia ma che soprattutto ha trasformato Springsteen in una super star mondiale. Per arrivare a quel traguardo aveva lavorato come un matto, da buon working class hero ma in realtà non gli interessava essere una super star da Mtv: in fondo dopo che finalmente aveva sfondato, nel 1975, con "Born To Run", nel 1978 aveva registrato "Darkness On The Edge Of Town", un album potente e scurissimo che molti anni più tardi Don Winslow definirà come un grande noir.
Per i fan il Boss era un culto, in Italia poi fino a quel momento erano un'enclave gelosissima della fede in quel ragazzo del New Jersey che riusciva a trasformare in musica e parole le loro vite e i loro sogni. "Born in The U.S.A." travolse il mondo con la forza di un uragano: per i puristi fu un oltraggio sentire le tastiere, con quel suono così puramente Eighties.
Per il mondo intero fu come il canto delle sirene: "Born Down in a Dead Man's Town" è l'incipit di un testo durissimo su un reduce del Vietnam che vive il dramma del ritorno a casa, eppure conquistò i quattro angoli del pianeta. Ronald Reagan tentò di appropriarsene per le proprie campagne patriottiche, subito stoppato dal Boss che rifiutò di concedergli i diritti. E poi, "scandalo nello scandalo", "Dancin'in The Dark", il brano aggiunto a disco chiuso, dopo una tremenda litigata con Jon Landau, il manager-produttore-tutore che aveva chiesto "un singolo". Ai fan sembrava un oltraggio quel pezzo ballabile, con il video firmato Brian De Palma con un'adolescente Courtney Cox chiamata sul palco a ballare con il Boss. Oggi la ragazza che sale sul palco a ballare è un rito immancabile, "You Can't Start a Fire, You Can't Start a Fire Without A Spark" è un coro altrettanto immancabile.
In realtà le 12 canzoni di quell'album trionfale hanno storie lunghe, come d'abitudine in Springsteen: quello che è nuovo è il sound, più potente, si potrebbe dire esplicito, per la prima volta volutamente legato alla contemporaneità e forse per questo così clamorosamente accolto. Come tutti i capolavori, anche "Born In The U.S.A." è una storia fatta di tante storie: come quella di Little Steven Van Zandt, destinato a diventare il Silvio Dante dei Soprano, che registrato quell'album, dopo essere stato accanto a Springsteen dai tempi in cui erano due ragazzi squattrinati che dominavano le session notturne sul Jersey Shore, decise di andare via dalla E Street Band dove poi rientrerà qualche anno dopo. È dedicata a lui, a quell'errore madornale di cui non si è pentito mai abbastanza, la struggente "Bobby Jean". Grazie anche al missaggio di Bob Clearmountain, "Born In The U.S.A." sembra creato per essere suonato negli stadi: ed è proprio con quella tournée che il 21 giugno 1985 Bruce arrivò in un San Siro pieno all'inverosimile.
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