- ROMA, 16 DIC"Sono stato in lockdown per quasi un anno, mi sento come una vecchia automobile arrugginita ferma in garage che non sa più se potrà ripartire. Ho una certa età e non so se avrò voglia ed energia di fare un altro film, anche se Paul Laverty, il mio sceneggiatore che è più giovane e pieno di idee, mi sprona sempre". Così ieri sera Ken Loach in collegamento remoto con Gian Luca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna che ha presentato la rassegna a lui dedicata disponibile su Miocinema. Ken, il comunista che convincerebbe alla sua causa il più ortodosso reazionario, a 84 anni ha dimostrato ancora una volta con la sua naturale purezza, lucidità e coerenza, che di lui ci si può fidare anche perché quello che dice arriva diritto allo scopo. Nella lunga conversazione con Farinelli, parla del suo cinema, del suo amore per la gente, per il popolo, di come gira i film e anche, ovviamente, del futuro del cinema post Covid. "Chi ama il cinema non come un prodotto commerciale, ma come un mezzo di comunicazione, tornerà in sala, ma sopravviveranno solo le piccole sale proprio come il teatro è sopravvissuto all'avvento della televisione. Diverso per i grandi multiplex nei quali si proiettano ormai solo Blockbuster che adesso vengono distribuiti in streaming. Loro avranno maggiori problemi. I ragazzi vedono i Blockbuster anche sul telefonino e poi in casa ormai ci sono schermi giganti dove si può vedere tutto in grande qualità". Due Palma d'oro, Leone e Orso alla carriera, Pardo d'onore di Locarno e Premio alla carriera agli EFA, Loach ha sempre raccontato la gente semplice, il proletariato. "Ho sempre amato le storie della vita di tutti i giorni perché sono le storie della maggior parte di noi, di gente che lavora per avere una casa dove educare i figli. Persone in conflitto con i padroni, con le grandi società per le quali lavorano che invece mirano semplicemente ad avere sempre più soldi e produrre lavoro in maniera più economica. Da qui nascono i conflitti e la lotta di classe e anche il lato comico che si vede nei miei film è alla fine solo il frutto di questa commedia umana che si crea sul posto di lavoro. Chi fa un lavoro duro, nell'edilizia o nei porti, nei cantieri e nelle miniere, o in fabbriche - continua Loach -, ha sempre voglia di prendere in giro qualcuno, il compagno di lavoro grasso, quello che arriva in ritardo, il caporeparto rigido. È così che si superano le avversità" Perché il lavoro non è un tema molto amato al cinema? "Il fatto è che passiamo la maggior parte del nostro tempo al lavoro. In fondo è quello che ci definisce meglio. Anticamente i cognomi venivano ispirati dai mestieri che si svolgevano. Ma oggi l'idea del lavoro fisso è stata stravolta, è in atto una precarizzazione selvaggia che si accompagna a un grande sfruttamento. Gli stipendi sono sempre più bassi e si può essere licenziati dall'oggi al domani. Così, non a caso, Hollywood, le major non hanno interesse a parlare di certe cose, ma cercano piuttosto di celebrare la ricchezza, l'individualismo, di rappresentare storie eccessive e violente. Se ne fregano di parlare del fattorino o dell'addetto alle pulizie". Sulla scelta degli attori, spesso non professionisti, spiega il regista: "Bisogna metterli a proprio agio. Io anche per questo giro in sequenza, dalla prima all'ultima scena, e questo rende tutto più facile. Da me tutti gli attori poi sono uguali, non ci sono prime donne che si vanno a prendere con l'autista. Anche la tecnologia non deve essere avvertita, niente luci in faccia così si ricrea sul set la mia normalità". Tra i titoli proposti da Miocinema: Terra e libertà, Sweet Sixteen, Il vento che accarezza l'erba (Palma d'Oro al Festival di Cannes 2006), Il mio amico Eric, La parte degli angeli e Io, Daniel Blake (Palma d'Oro al Festival di Cannes 2016). (ANSA)
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