Quegli occhiali bianchi, divenuti nel tempo un simbolo e un'icona, da oggi non celano più il brillio birichino e pungente della donna e dell'artista che per decenni ha riunito in sé un'immagine dell'Italia applaudita e amata in tutto il mondo. Lina Wertmüller non c'è più, ma potremmo scommettere che proprio in questo momento, da qualche altra parte, sta ridendo del suo ennesimo scherzo al destino: la morte non le faceva paura: ""Gli anni ci sono e si sentono - diceva appena poco tempo fa - ma lavorando mi sono divertita tutta la vita e non è poco".
Non a caso la motivazione dell'Oscar alla carriera che nel 2020 confermò il prestigio internazionale che l'Academy le attribuiva fin dalla nomination come migliore regista (prima donna in assoluto a ottenere l'attenzione di Hollywood nel 1977 per "Pasqualino settebellezze") recita: "per il suo provocatorio scardinare con coraggio le regole politiche e sociali attraverso la sua arma preferita: la cinepresa". Ci lascia in eredità 23 film, alcuni dei quali sono pietre miliari del costume ("Mimì metallurgico…", "Travolti da un insolito destino…") e altri perfetta incarnazione di un'idea colorata e attraente dell'Italia ("Sabato, domenica e lunedì" e il sodalizio con l'amica adorata Sophia Loren). Ma il tratto in fondo più originale è la spregiudicata libertà delle sue scelte: debutta col cinema d'autore, ma subito dopo non si fa scrupolo di provarsi (sotto pseudonimo) con lo spaghetti western ("Il mio corpo per un poker" con Elsa Martinelli) per far capire ai produttori che la regia è anche mestiere da donna; scopre la vena istrionica di Rita Pavone, la collauda in un paio di "musicarelli" e poi la esalta nel memorabile "Giornalino di Gianburrasca" girato per la televisione tra il 1964 e il 1965.
Raggiunto il successo nel decennio d'oro degli anni '70, vira ancora verso il racconto surreale ("La fine del mondo nel nostro solito letto", 1978); si dedica a Napoli e alla sua cultura prediletta, ma il suo grande ritorno viene in accordo col genovese Paolo Villaggio per "Io speriamo che me la cavo" (1992). Disgustata dalla disattenzione della distribuzione tradizionale, abbraccia nuovamente il racconto televisivo alle soglie degli anni Duemila, ma dopo il David di Donatello alla carriera del 2010 depone le armi e si ritira in un dignitoso silenzio. Un vero peccato perché la sua verve è viva fino all'ultimo giorno e dal suo carniere avrebbe potuto estrarre altri gioielli. "Ho sempre avuto un carattere forte, fin da piccola - raccontava Lina Wertmueller- . Sono stata addirittura cacciata da undici scuole e sul set ho sempre comandato io". Piccola, tenace, vitale ma capace di scontri furibondi e di amicizie indistruttibili, Lina a soli 17 anni si iscrive all'accademia teatrale di Pietro Sharoff, debutta come regista di burattini con la guida di Maria Signorelli, scrive per la radio e la televisione mettendo in mostra un estro surreale e comico che sarà la sua arma vincente, va a scuola di cinema da Fellini sui set di "La dolce vita" e "8 ½" e quando debutta nel lungometraggio con "I basilischi" nel 1963 già vince la Vela d'oro al Festival di Locarno. L'anno dopo, il sodalizio con Rita Pavone per "Il giornalino di Giamburrasca" ne fa d'un colpo una regista ricercata dai produttori. Nello stesso periodo incontra l'apprezzato scenografo teatrale Enrico Job con cui si sposerà, dividerà tutta la carriera artistica e adotterà la figlia Maria Zulima. Al bivio tra il cinema "autoriale" e quello di genere, Lina non ha mai esitato a scegliere la via di un cinema popolare e di immediata empatia. Così nel 972 scrive e dirige il suo primo, grande successo, "Mimi' metallurgico ferito nell'onore", in cui per la prima volta fa coppia artistica con il suo protagonista per eccellenza, Giancarlo Giannini. Il film ha un travolgente successo in sala e si guadagna l'invito al festival di Cannes. In età matura era sempre più attratta dalla cultura partenopea tanto da meritarsi la cittadinanza onoraria di Napoli e da debuttare al Teatro San Carlo con una felice regia della "Carmen" di Bizet. Si è divertita anche in veste di doppiatrice per "Mulan" o come attrice nel gruppo dei "poteri forti" in "Benvenuto Presidente" di Riccardo Milani. A lei dedica un bellissimo omaggio il suo collaboratore storico Valerio Ruiz: "Dietro gli occhiali bianchi", presentato nel 2015 alla Mostra di Venezia. Oggi piace ricordarla come una campionessa della femminilità senza etichette e "quote": nel cinema resta unica, inconfondibile, nella vita continuerà a essere un modello di donna cui guardare con ammirazione. (ANSA).
Lina Wertmuller, una rivoluzionaria oltre i generi
Scompare a 93 anni, prima regista donna nomination all'Oscar