Cultura

Francesca Comencini, lettera d'amore al padre che mi ha salvata

Il tempo che ci vuole, Gifuni e Vergano tra privato e universale

Redazione Ansa

Un padre e una figlia, la crescita, gli inciampi, il dialogo, la tossicodipendenza, la generazione perduta, l'ascolto, l'abbraccio, la fragilità di un genitore e quello di una ragazza che rischia di perdersi, il rigore, la passione, il senso di fallimento: c'è un mondo dentro Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, "una lettera d'amore per mio padre Luigi e per il cinema". Il film, oggi fuori concorso a Venezia 81, è un confronto serrato, coraggioso, diretto, affettuoso tra Francesca e Luigi, Romana Maggiora Vergano e Fabrizio Gifuni.
    Il tempo che ci vuole, in sala dal 26 settembre con 01, oggi ha fatto commuovere Venezia coinvolgendo chi ha vissuto quegli anni '70, '80 ma anche le giovani generazioni. Parla di "teatro della memoria" Francesca Comencini, "ho vissuto tutta la vita come un teatro sempre aperto nella mia testa. Un cono di luce si andava a mettere su momenti reali, ma anche su quelli sognati, ricordi sfocati che sono diventati la materia del film". Ma "non è un film sul mio privato, perlomeno non solo questo, l'ho pensato e spero arrivi - dice all'ANSA la regista - come un film che da questa storia personale parli a tutti, raggiunga un carattere di universalità raccontando quel rapporto fondamentale per qualunque donna che è la relazione padre-figlia".
    C'è l'infanzia magica, perfetta. Il padre grande regista, uomo d'altri tempi, gentile, misurato, onesto, sta preparando Pinocchio e la osserva, le parla composto mentre lei ascolta, gioca, disegna, si diverte sul set come il personaggio di una favola. La bambina diventa una ragazza che cresce confusa, con una strada non chiara, sentendosi non all'altezza delle aspettative del padre e si perde nella tossicodipendenza. Lei nega, lo maschera in casa, ma fuori è come altri di quella generazione spazzati via dalla droga, uno dei tanti traumi di quell'epoca oltre al terrorismo. Il padre è disperato, non sa come gestire, chiede la verità, riceve bugie, poi decide di non far finta di niente e la porta via a Parigi promettendole di non lasciarla neppure per un momento. È dura ma ci si può salvare e il cinema, palestra di una vita, è un nuovo inizio.
    "Sarebbe piaciuto a mio padre? È una domanda paralizzante, spero di sì, di sicuro è omaggio alla persona che mi ha salvata", risponde commossa. "Tutta la vita ho cercato di non essere percepita come 'figlia di' ma ora, passato 'il tempo che ci vuole', superati i 60 anni, mi permetto il lusso di dire che sono sua figlia e sono abbastanza vecchia e brava per fare il film che da una vita tenevo dentro. L'ho messo a fuoco durante il lockdown quando tutti siamo stati attraversati dall'angoscia di perdere le cose e inciampavamo nei ricordi. Quel periodo mi ha permesso di capire anche l'amore per il cinema".
    Nel film ci sono solo loro due, mentre la famiglia Comencini è una grande famiglia, tutta legata al cinema: si è voluta riprendere uno spazio tutto per se? "No, ho condiviso ogni pagina, ho avuto sostegno e vicinanza delle mie sorelle Paola, Eleonora, Cristina ma sentivo che non avrei potuto fare diversamente questo racconto se non sola io con mio padre".
    Elaborare la sua storia è anche fare i conti con la tossicodipendenza. "Tra i traumi della mia generazione c'è stata la droga, ha avuto lo stigma della vergogna, io stessa l'ho vissuto ma vorrei dire che si può uscire e pure a testa alta.
    Elaborare tutto questo e trasmetterlo ai giovani spiegando che questo problema si può presentare ma anche risolvere mi sembrava un passo importante".
    Fabrizio Gifuni, abituato a stare nelle vite degli altri anche famosi (Aldo Moro fra tutti), così come Romana Maggiora Vergano che il personaggio lo aveva presente dietro la macchina da presa, avevano due ruoli emotivamente complicati "ma siamo stati subito liberati - rispondono all'ANSA - da questi fantasmi, subito presi invece dal cuore del film, dal rapporto padre- figlia".
    Il padre - osserva Gifuni - "ha questo senso di fallimento, ma prima si introietta questo pensiero prima lo si supera. La cultura occidentale ha da anni alla base una stortura, quella dell'essere performativi, ci divide in perdenti e vincenti ma prima ci si libera di queste cazzate più siamo al riparo. La vita è anche questo, sbagliare continuamente e rialzarsi".
    Romana Maggiora Vergano, reduce dal successo di C'è ancora domani di Paola Cortellesi, si augura che Il tempo che ci vuole sia visto dalla sua generazione di 20-30enni. "Prima che attrice sono una giovane donna che ha sperimentato il senso assoluto di inadeguatezza. Questo film è un coming of age, la storia di una crescita e la comprensione che il viaggio dentro la la conoscenza di sé dura una vita".
    Il film è una produzione Kavac Film con Rai Cinema, Les Films du Worso, IBC Movie e One Art. 
   

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