(di Paolo Petroni)
(ANSA) - ROMA, 20 SET - La produzione poetica, ma anche
saggistica di Ghiorgos Seferis (vero cognome Seferiadis) resta
uno dei punti essenziali di riferimento della letteratura
neogreca, e non solo, del Novecento, che lo celebra in questi
giorni a cinquanta anni dalla sua morte avvenuta il 20 settembre
1971. Premio Nobel per la letteratura nel 1963, gode di una
grande popolarità, grazie anche al fatto che alcuni suoi versi
sono stati musicati da Mikis Theodorakis a ribadire
l'affermazione del poeta nel discorso di accettazione a
Stoccolma: ''la nostra fine è certa, eppure la poesia è ancora
utile''.
Greco di Smirne in Turchia, dove era nato il 13 marzo 1900 e
aveva trascorso l'infanzia, oramai studente ad Atene e Parigi
visse nel 1922 la disfatta dell'esercito greco e l'accanirsi
distruttivo dei turchi sulla sua città natale, col conseguente
esodo della grande comunità greca, con profonda sofferenza e
sentendo spezzato il filo che lo legava a quella città vivace e
cosmopolita, tanto che nella sua poesia è presente il sentimento
dell'esilio, di una certa estraneità che trova la propria
identità perduta nella cultura classica greca.
''Le case che avevo me le hanno prese. Furono / per
avventura, anni bisesti: guerre, devastazioni, esili'' sono i
primi due versi del suo capolavoro, il poemetto ''Il tordo''
scritto nel 1947, che muove dall'oscuro abisso della guerra
finita da poco e delle lotte fratricide verso il chiarore di una
provvisoria speranza e di una serena fine: ''si farà vuoto il
mare, vetro frantumato, al vento / di Nord e Sud ,/ e si faranno
vuoti i tuoi occhi di luce,/ come d'un tratto, insieme /
tacciono le cicale''.
Tornato in Grecia da Parigi nel 1926, Seferis prese coscienza
della sua vocazione letteraria pubblicando le due prime
raccolte, ''Svolta'' e ''Cisterna'' in cui si avvertono
influenze del simbolismo francese, di Mallarmé e Valery, ma con
una novità di linguaggio e ritmo e di audaci procedimenti
allusivi. Negli stessi anni intraprende una fortunata carriera
diplomatica che lo porterà tra l'altro come vice-console a
Londra, dove la conoscenza personale e poetica di Eliot sarà una
rivelazione e un importante aiuto alla scoperta di sé, assieme a
traduzioni da Pound e Auden, come è evidente nei volumi di
quell'epoca, ''Leggenda'' e ''Gimnopedia'': ''le pietrose
reliquie e il respiro del mare, le morte stagioni e la
continuità della razza si mescolano in una lirica nutrita di
linfe culturali, ma schietta e precisa nei modi, rattenuta e
vibrante'', come ha scritto il grecista Filippo Maria Pontani,
suo primo traduttore in italiano.
Durante gli anni di guerra si trasferì prima Creta e poi in
Egitto, collaborando col governo ellenico esule e pubblicando le
prime due parti del suo ''Giornale di bordo'', versi amari su
quegli anni di smarrimento e guerra. Tornato in patria, riprese
il suo peregrinare diplomatico e nel 1969, fu uno dei primi a
prendere posizione contro il colpo di stato e la feroce
dittatura di estrema destra dei colonnelli, tanto che nel 1971 i
suoi funerali ebbero una grande partecipazione popolare
trasformandosi in una manifestazione di protesta in nome della
democrazia.
Dalle traduzioni e i versi degli inizi, sino alle poesie dei
''Quaderni di esercizi'' (il secondo uscito postumo nel 1976),
sempre usando per scrivere non il greco letterario ma il
demotico, quello parlato, alla cui immediatezza ha dato misura e
leganza nuove, la realtà di miseria e decadenza vissuta dal
poeta più volte nella vita, in senso storico e esistenziale,
suscita quella nostalgia per il passato classico del suo paese,
ma guardando al repertorio di miti e figure della Grecia antica
come un mondo culturale da interrogare e con cui dialogare sul
destino umano, su temi eterni, dando nuovo senso al retaggio del
passato: ''Ma gli esorcismi, il bene, l'oratoria,/ a che servono
se cono lontani dai vivi?/ Oppure l'uomo è un'altra cosa?/ Non è
questo che trasmette la vita?/ C'è un tempo per seminare e un
tempo per raccogliere''. (ANSA).
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