(dell'inviata Mauretta Capuano)
(ANSA) - TORINO, 11 MAG - Si muove tutto intorno a una
domanda: perché non ascoltiamo più noi stessi? il nuovo thriller
di Joel Dicker, 'Un animale selvaggio' (La nave di Teseo).
"Viviamo in un mondo in cui siamo ossessionati dagli altri e
dai noi stessi.
Grandi applausi hanno accolto sul palco lo scrittore svizzero
super bestseller, subito in testa alla classifica dei libri più
venduti in Italia con il nuovo thriller partito con una delle
migliori performance di sempre. "Grazie, grazie. L'Italia è come
se fosse casa mia, la mia famiglia. Mia nonna era triestina.
Grazie di questa ospitalità fantastica" sorride Dicker in
dialogo con Linus. "Non so ancora quale sarà il prossimo passo,
ma la cosa più importante per me, ora che questo libro esce in
Italia, il paese di mia nonna e del mio cuore, è rendermi conto
di quanto i lettori mi siano vicini. Mi seguono con affetto, mi
incoraggiano, hanno fiducia in me e mi accompagnano nel mio
percorso" afferma.
"Fino a che punto i nostri comportamenti sono definiti dalle
aspettative degli altri e non dalle nostre?" Queste sono le
questioni da cui è partito Dicker in 'Un animale selvaggio' in
cui lascia l'ambientazione americana del Maine per un contesto
più familiare e contemporaneo, la sua Ginevra natale, con due
coppie di protagonisti coinvolti loro malgrado in una rapina e
intrappolati in un intrigo diabolico, dal quale nessuno esce
indenne. "I miei romanzi ambientati nel Maine sono senza tempo.
Quelli che si svolgono a Ginevra sono di ambientazione
contemporanea perché io vivo lì" spiega l'autore fenomeno
editoriale mondiale della trilogia di Harry Quebert, conclusa
con 'Il caso Alaska Sanders'.
'Un animale selvaggio', il suo settimo romanzo, segna una
nuova svolta nella sua carriera. "Bisogna scrivere un po' a caso
come quando si percorre un cammino, senza sapere dove si stia
andando. I lettori ogni volta che c'è un colpo di scena dicono
'non è possibile'" racconta, parlando del suo processo creativo.
"Scrivere è come una maratona. Bisogna seguire il programma. Ad
un certo punto si sentono le difficoltà, la fatica ma è anche
questo il bello. Quando si corre non si corre per vincere, per
fare la competizione. La scrittura non è qualcosa contro
qualcuno, si fa per se stessi" sottolinea mentre il pubblico lo
ascolta incantato. "Scrivo sempre all'alba, alle tre del
mattino. Anni fa avrei detto che ho un ufficio dove vado a
scrivere in tutta tranquillità. Ora è diverso, ho tanti
collaboratori, i figli. Scrivo dove posso nascondermi".
Per restare nella tradizione anche questo thriller sfiora le
500 pagine. "Non penso ai lettori quando scrivo, piuttosto sono
in relazione con me stesso, parto da un'osservazione. Non voglio
fare piacere ai lettori, ma avere una condivisione con loro".
Quale personaggio le assomiglia di più? "Nello sguardo verso il
mondo, non per la trama dei libri, Harry. Comunque lo sguardo
sul mondo cambia con le tappe della vita. In Un animale
selvaggio non a caso sono tutti sulla quarantina, mi identifico
con la loro età", mentre "la responsabilità - dice - è il filo
conduttore di tutti i miei libri".
Prima di Harry Quebert, Dicker aveva scritto tanti romanzi ma
"gli editori mi avevano detto di no. Quando ho iniziato a
scrivere quel libro mi sono detto che poi avrei smesso, era
l'ultima volta. Poi ho avuto successo e ho fatto una trilogia,
ma l'idea la avevo già. Elisabetta Sgarbi aveva acquistato i
diritti di Quebert prima del mio successo, sulla fiducia. Sono
molto grato a lei e ho un forte legame con l'Italia. Ovviamente
il primo paese che mi ha apprezzato è stata la Francia perché
scrivo in francese".
Cosa avrebbe fatto se non avesse funzionato Quebert? "Avrei
sempre scritto perché scrivere per me è un bisogno", risponde lo
scrittore ginevrino al quale non piacciono "i romanzi gialli con
troppa tecnologia. Mi piace ci sia una sfida nei miei libri,
fornisco al lettore tutti gli strumenti per risolvere il caso.
Tutto questo nasce dalla voglia di scrivere storie che capirei
io come lettore" racconta. Dicker non ama neppure gli ambienti
troppo violenti e se c'è il morto "non mi piace descrivere la
scena con molti particolari". Quanto ai colpi di scena, come il
resto, "non si possono pensare prima". (ANSA).
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