(di Francesco De Filippo)
(ANSA) - TRIESTE, 12 GEN - MAURIZIO BAIT, "ALPI D'ORIENTE.
STORIE DI UOMINI, DONNE, ANIMALI E FORESTE" (ediciclo editore;
189 pp.
Ma non è una verità circoscritta a questa area geografica:
"Non si cerchi nella montagna un'impalcatura per arrampicate, ma
si cerchi la sua anima", era il pensiero del poeta, scrittore e
alpinista Julius Kugy (1858-1944). Un duro e puro Kugy, mezzo
austriaco e mezzo sloveno, che nominò Franz Schubert proprio
"santo personale": per lui e il suo diretto erede Vladimiro
Dougan, piantare nella roccia chiodi e catene - "ferraglie" -
era blasfemo, ricorda Bait. Verità generalizzata non solo
geografica ma anche intima: salire in vetta inteso come percorso
spirituale, che porta alla pace interiore.
Appassionato di montagna, conoscitore della cultura italiana,
germanica e slovena, Bait in un libro "religioso", pervaso da
forme di panismo, inanella una sorta di Spoon River delle Alpi
Giulie con decine di storie e di volti noti o conosciuti solo
nel duro mondo dell'alpinismo, con frequenti e colte diversioni
storiche, culturali, scientifiche. Nel triangolo di terra tra
Italia, Austria e Slovenia i richiami alla psicanalisi di Jung e
di un suo celebre paziente, Herman Hesse, sono forti, non di
meno quelli di personaggi più distanti come Eraclito,
Heisenberg, Roth. Bait si carica il lettore sulle spalle e lo
scorrazza tra i rigori del gelo e le sofferenze della prima
guerra mondiale che qui mieté le vite di centinaia di migliaia
di giovani; lo porta su cime davvero tempestose e indietro nel
tempo fino agli albori dell'alpinismo, quando gli autoctoni
andavano per terre alte come bracconieri e non - come anni dopo
- per sfida o sport, con abbigliamenti tecnici ma per bisogno,
per fame, nella speranza di cacciare un camoscio, che
significava carne per giorni e per l'intera famiglia.
Poi, quando si diffuse l'alpinismo, cominciarono ad arrivare
i ricchi austriaci e triestini che volevano scolpire i loro nomi
come i primi a raggiungere la vetta del Montasio, ad esempio.
Allora gli autoctoni smisero di cacciare per fare le guide,
portare gli stranieri fin su fingendo che nessuno si fosse
spinto così in alto. In vetta costruivano un ometto con i sassi
come era usanza, lasciando un astuccio con il nome
dell'alpinista a testimonianza del primato, e ridiscendevano.
Quando i ricchi ripartivano, risalivano, smontavano e
cancellavano le tracce in attesa del prossimo turista che
avrebbe tentato l'impresa di scalare la vetta per primo e dunque
altro ometto di sassi e nuovo astuccio.
Bait insegna al lettore a riconoscere i larici, che vivono
fino a ottomila anni, la filosofia del branco del lof, il lupo,
e paesi sconosciuti dai suoni misteriosamente aztechi, messicani
come Chiutzuquin e Mincigos. Camminando di notte nel bosco con
una fioca lampada ad acetilene che illumina non oltre un metro,
Bait riconosce i rumori, i versi, gli odori, descrive figure
quasi mitologiche di uomini-lupo, uomini-orso. "Una sera di
alcuni decenni fa - ricorda - mentre in un isolato rifugio
dividevo una parca cena con un amico mentre fuori impazzava la
bufera, la porta si spalancò ed entrò un uomo vestito
completamente di nero, con un cappellaccio nero e una sorta di
archibugio: in uno strettissimo dialetto friulano chiese
polenta, formaggio e una bottiglia di vino. Gli demmo tutto, lui
prese e scomparve di nuovo nella tormenta". (ANSA).
Nelle 'Alpi d'Oriente' un autentico spirito di vita
L'ultima fatica di Bait un volume religioso permeato di panismo