Cultura

Carmelo Bene, Perlini, Vasilicò e i 60 anni del Beat 72

La prima cantina romana dove nacque il 'teatro immagine'

Redazione Ansa

La cultura Beat americana è di pochi anni prima e da noi la si conosce appena (Jukebox all'idrogeno di Allen Ginsberg arriva nel 1965 e Sulla strada di Jack Kerouac nel 1967), ma Ulisse Benedetti ha 24 anni e unisce curiosità a un ottimo fiuto così, lasciato il locale a Trastevere che sarebbe diventato La Ringhiera di Gianfranco Mulè, affitta una cantina nel 1964, così che se ne celebrano ora i 60 anni, anche se l'attività vera inizierà due anni dopo. La chiama Beat 72 (il numero è quello civico di via G. Belli) dove tra i primi a esibirsi quello stesso anno ci sarà Carmelo Bene, con Lydia Mancinelli e il debutto dello strabiliante e sconcertante Nostra signora dei turchi con la parola, la vocalità che sospende e comprende il dramma, cui seguiranno nel 1967 le nuove versioni di Amleto o le conseguenze della pietà filiale e Salomè. Una cantina buia e umida (siamo a 100 metri dal Tevere), cui si accede dalla strada per una lunga e ripida scala, che riesce a ospitare una cinquantina di spettatori, davanti a una piccola pedana (quattro metri per due) che possiamo considerare un po' la culla di tutta la neoavanguardia romana e la stagione appunto delle cantine negli anni Settanta, che avrebbe influenzato tutto il teatro italiano con la sua ricerca fisica e visiva e vitalità contestatrice delle platee dalle poltrone rosse. Tanti i nomi legati a quello spazio, ma due restano iconici e storici, dopo Bene, Giuliano Vasilicò (e la sorella Lucia) col forte, incisivo Le 120 giornate di Sodoma dall'opera di De Sade (novembre 1972) preceduto da una sua lettura di Amleto (luglio 1971) e Memè Perlini col suo inquieto, suggestivo e inquietante Pirandello chi? (gennaio 1973). Lì vivono anche, per iniziativa di Benedetti, Carella e Franco Cordelli, le serate settimanali dedicate ai poeti che recitano i loro versi da soli e creano performance col supporto di attori (da Dario Bellezza a Valentino Zeichen, da Renzo Paris a Gregorio Scalise, da Elio Pecora a Maurizio Cucchi) da cui nascerà poi nel 1979 il primo, storico, Festival dei poeti di Castelporziano. Il Beat 72: uno spazio quasi leggendario che le cronache amano legare alla celeberrima pipì che Carmelo Bene avrebbe provocatoriamente fatto fuori della pedana e diretta verso gli spettatori, ma che deve la sua importanza a una lunga programmazione, protrattasi regolarmente sino al 1986, ma con code sino al 1991 quando, oramai sotto sfratto, Simone Carella ricorda di avervi realizzato, a seguito dello scoppio della prima guerra in Iraq, lo spettacolo Il rifugio degli artisti, titolo emblematico e quasi etichetta da porre alla fine su quel locale. Infatti il Beat 72 fu sempre una casa aperta, un luogo in cui passarono in moltissimi (alcuni nomi: Leo De Berardinis, Giorgio Barberio Corsetti, Marco Solari, Federico Tiezzi, Cosimo Cinieri, Roberto Benigni, Mario Martone, che sono solo quelli oggi più noti), si sperimentarono, riuscirono e fallirono, crearono e provocarono. Nicola Fano ricorda una serata in cui "una manciata di spettatori veniva fatta accomodare sulle poltrone immerse nel buio, con una vaga musica diffusa per una mezz'ora. E poi null'altro, non un'azione, non una parola, non un attore". Questo al contrario delle altre cantine e spazi vari quasi tutti legati a un nome e una compagnia, dalla Fede di Giancarlo Nanni e Kustermann all'Abaco di Mario Ricci, al Metateatro di Pippo Di Marca o alla Comunità (l'unico rimasto intatto e ancora in attività) di Giancarlo Sepe, per citarne alcuni, che poi vennero Spaziouno, Spazio zero o la Piramide di Memè Perlini nel 1978 che con le sue due o tre sale fu per oltre un decennio luogo vivissimo per il suo teatro, realizzato con la collaborazione di Antonello Aglioti (si ricorda per l'inaugurazione un travolgente Risveglio di primavera da Wedekind) e per il nuovo teatro romano e italiano di passaggio a Roma. È il tempo in cui quel teatro che verrà definito 'Teatro immagine' per la sua attenzione allo spettacolo e l'effetto visivo e l'uso in scena dei corpi e le luci, sempre praticamente senza voce, senza un vero testo o battute di dialogo, ritrova invece appunto la necessità della parola, si misura con testi nuovi e classici. Verrà allora l'Orologio nel 1982, creato da Mario Moretti con due sale per la giovane drammaturgia italiana e la sala Orfeo di Valentino Orfeo, cui nel 1984 si aggiunge l'Argot (anch'esso ancora in attività) di Maurizio Panici e i due spazi diventeranno il luogo di nascita di quasi tutti gli autori, gli attori e i registi della grande leva degli anni '90, ultimo vero periodo di fervore creativo e dell'esistenza di un vero nuovo tessuto teatrale, in cui si collabora, ci si segue, si lavora assieme.

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