Cultura

Moderno Cechov del 'Giardino dei ciliegi' letto da Lidi

Un allestimento contemporaneo con un suo senso non sconcertante

Redazione Ansa

(di Paolo Petroni) (ANSA) - ROMA, 08 DIC - Lopachin, uomo d'affari ricco e di successo, tanto che alla fine si comprerà 'Il giardino dei ciliegi' dove suo padre era un misero contadino analfabeta, canta ''ritornerai e scoprirai che nulla è cambiato; riderai, sentendoti sola con la tua libertà'' (di Bruno Lauzi) cogliendo quel senso di inquietudine e spensierata incoscienza della nobildonna Ljubov, proprietaria della tenuta ormai gravemente ipotecata e che sta per andare all'asta, la quale torna in Russia dopo cinque anni vissuti in Francia e aver sperperato tutti i suoi averi, con le figlie Anja e Varja.
    Per chi ricorda il Cechov realistico e sentimentale de 'Il giardino dei ciliegi' di Luchino Visconti (1965) e quello tutto bianco e d'atmosfera di Giorgio Strehler (1974) assieme a molti altri, questa lettura di Leonardo Lidi può essere uno shock, con i suoi colorati abiti casual contemporanei; una recitazione che ha un piglio e un ritmo moderni, lontani dalla vena nostalgica; una scelta particolare degli attori che arriva a avere per la governante Charlotta un interprete maschile (Maurizio Cardillo); una forte sottolineatura comica del vaudeville cechoviano, con lo sfortunato contabile Semen che pare un divertente e acrobatico Arlecchino, grazie all'agilità, i tempi e la mimica di Massimiliano Speziani. Tutto è ambientato poi in un palcoscenico senza fondali o arredi tranne alcune sedie come per concentrarsi sui personaggi e il loro parlare di nulla, argomentare monologando e rimandandosi le riflessioni l'uno all'altro, così che (come in 'Il gabbiano') Lidi propone una visione e un senso generale poco mimetico, con un effetto straniante, come si trattasse di una prova e non di una recita, evidenziando ruoli e dialogo.
    Questa essenzialità scenica, come già sottolineò Giancarlo Nanni nel suo allestimento (2006), può rimandare il giardino e il suo destino a quello del teatro. Così, quando Ljubov recita il suo monologo in mezzo agli spettatori (''Io amo questa casa, senza il giardino dei ciliegi la mia vita non ha più senso. Se bisogna venderlo, allora vendete assieme anche me...'') non è difficile pensare che oltre al personaggio, parli l'attrice, del suo lavoro.
    Lidi è tornato a Cechov, dopo 'Il gabbiano' e 'Zio Vanja', con questo 'Il giardino dei ciliegi', approdato ora al Teatro Vascello di Roma, dopo Milano, Torino e la maratona dei tre titoli allo Stabile dell'Umbria, che li produce con lo Stabie di Torino e lo Spoleto Festival, prima di chiudere la tournée a Bologna (9-12 gennaio), passando a dicembre per Monza, Como e Viterbo.
    Questa sua lettura, che gioca sulla esilità della narrazione e la destrutturazione di Cechov dei personaggi (inizio del teatro moderno, che arriverà così a Beckett) non è meno estrema, sul versante opposto, di quella che puntava sul realismo, dai veri rami con fiori di ciliegio in scena alla recitazione, di Visconti, e tutte e due hanno una loro ragione e sono da vedere nel proprio contesto storico-culturale. Quella di 60 anni fa faceva per tanti versi ancora parte di quello di Cechov, mentre Lidi opera in un mondo e realtà quasi totalmente e profondamente cambiati, in cui il teatro fa fatica a vivere, in cui non si tollerano più lentezze, in cui l'alto e il basso hanno perso i propri confini.
    Qualcosa, certamente, di Cechov, di certe sue sottigliezze di scrittura, va perso. In questo ballare, agitarsi e incoscientemente far festa come sul Titanic, il vecchio mondo rappresentato da Ljuba e la sua famiglia, quel loro non rendersi conto di come le cose non siano più quelle di un tempo poteva sentirsi un po' meno superficialmente e così il fondersi, con la commedia, del dramma, anche se uno o due momenti più intensi ci sono, grazie alla Ljubov di Francesca Mazza e al Lopachin del bravo Mario Pirello, agitato senza eccedere e intimidito nell'amore inespresso con la Varja di Ilaria Falini. Il risultato alla fine si rivela così meno provocatorio di come poteva apparire e che tutti nel secondo atto si ritrovino a parlare, invece che attorno a una panchina nel giardino, in costume al sole su una pedana in riva al fiume, non modifica assolutamente il senso generale. Quello che rappresenta anche il vecchio cameriere Firs (Tino Rossi), sin dall'inizio oramai solo un oggetto della casa, dove resta abbandonato mentre i ciliegi vengono tagliati e si lavora per la lottizzazione: ''Si sono dimenticati di me... non fa nulla, io resto qui… Gioventù scapestrata. la vita è passata ed è come non avessi vissuto'' e apre un fazzoletto alzandolo davanti al viso come a tirare il sipario, tra vita e teatro. (ANSA).
   

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