(ANSA) - ROMA, 10 AGO - WILLIAM DAVIES, L'INDUSTRIA DELLA FELICITÀ. COME LA POLITICA E LE GRANDI IMPRESE CI VENDONO IL BENESSERE (EINAUDI, PP.240, EURO 20)
La bioenergia, la psicologia positiva, i corsi di yoga, le pratiche di meditazione, i guru e gli sciamani, il fitness, i seminari sul benessere, i manuali di auto-aiuto: per provare a essere felici non c'è che l'imbarazzo della scelta. E poi, come contraltare, c'è l'uso (quando non l'abuso) di ansiolitici e antidepressivi, per curare tristezza, paura e quel "male di vivere" che sembra essere il tallone d'Achille dei Paesi più sviluppati. In mezzo a queste due sponde, scorre l'ambitissimo mare della felicità che ogni uomo su questa Terra vorrebbe navigare. Stare bene è probabilmente l'obiettivo più condiviso al mondo tra gli esseri umani, quello più logico e naturale, ma probabilmente anche il più difficile da raggiungere. E nella società dei consumi è proprio la conquista della felicità l'ambiziosa sfida che il mercato si propone di vincere, nella convinzione che tutto possa essere venduto e quindi comprato. A spiegare le nuove frontiere dell'economia mondiale è il sociologo ed economista politico inglese William Davies nel bel libro L'industria della felicità. E' la felicità l'assillo degli anni 2000, non più il denaro.
Soprattutto perché se non si è felici non si lavora bene, non si produce e non si compra. Dunque è vero che "i soldi non fanno la felicità", e ormai ci credono sia i politici che i manager d'azienda. Sono infatti le emozioni a farci stare bene. Si potrebbe dire che il capitalismo - con il mantra del profitto, il mito della produttività 24 ore su 24, le tecnologie digitali pervasive, la dicotomia tra vincente e perdente - abbia fatto da substrato a tutti i problemi di alienazione e ansia per i quali ora cerca la soluzione proprio attraverso la misurazione delle emozioni. Il dolore e la gioia, la paura e l'eccitazione, non sono sentimenti metafisici e impalpabili, ma rappresentano fenomeni che si possono misurare e a cui si può dare un valore, anche economico. Ecco perché la felicità è diventata una vera e propria industria, con le aziende che utilizzano le informazioni ottenute con nuove tecnologie e ricerche per "formare una mappa precisa di quali zone, stili di vita, tipi di lavoro e forme di consumo generino il miglior benessere possibile".
Detta così potrebbe anche sembrare una grande opportunità, perché si avrebbe la ricetta dell'essere felici. E anche Davies di certo non vuole combattere la felicità, ma vuole mettere in luce dei rischi: ripercorrendo in modo lucido e con uno stile brillante il '900 tra storia, sociologia, scienza, marketing e filosofia politica, l'autore dimostra che oggi siamo arrivati al paradosso di considerare le emozioni qualcosa da acquistare e vendere. Se il benessere può essere davvero reso oggettivo, e quindi misurabile per mezzo di specifici indicatori, il suo controllo è qualcosa di appetibile per il potere economico e politico. E' qui, in questa potenziale diminuzione della libertà e nella manipolazione degli individui, che risiede secondo Davies il principale rischio nascosto dietro l'"economia della felicità". Senza contare che ridurre tutto a numeri, calcoli e algoritmi elimina ogni riferimento alla sfera etica e filosofica connessa al tema antico della felicità. Infine, focalizzandosi sui sintomi dell'infelicità e ritenendo che tutto possa essere "risolto" nel cervello, si annulla ogni complessità. Si prende quindi la strada più comoda, ossia la rinuncia a cambiare davvero il contesto sociale e politico di cui proprio l'infelicità è figlia.