(ANSA) - ROMA, 22 AGO - GREGOR VON REZZORI, ''CAINO - L'ULTIMO MANOSCRITTO'' (BOMPIANI, PP. 214, 13,00 EURO - TRADUZIONE E CURA DI ANDREA LANDOLFI)
''E lei vorrebbe possibilmente continuare a tessere quel velo, e con l'aiuto di Dio dare anche lei una mano sottobanco alla realtà di domani, affinché non veda! Affinché vada incontro al futuro con la stessa cecità di ieri! E' questo che siamo stati chiamati a fare noi scriventi? Mai dire la verità? mai smettere di tessere il velo di Maya, e quanto più spesso esso diventa, tanto più vive sono le nostre descrizioni degli orrori dell'umanità? Be, grazie tante, Io non ci sto'' afferma la voce narrante, che poco prima ha affermato ''finalmente l'orrore, latente nell'epoca, accadeva in modo universalmente comprensibile, anche se non ancora immediato come dietro il filo spinato''.
Un libro quindi testamento, sul disgregarsi tragico di un mondo, narrato con un sottile e poliedrico gioco letterario, da uno dei suoi testimoni più coscienti e accreditati, Gregor Von Rezzori, nato in un anno emblematico, il 1914 in cui iniziò la Grande Guerra, in Bukovina, allora ancora parte dell'Impero austro-ungarico, di cui si fa ambasciatore, grazie alla sua eleganza, il suo charmant amore per la vita, nel coincidere del suo stile di vita con quello raffinato della sua scrittura.
Tutto osservato senza false nostalgie, ma anzi con una vena di moderna cosciente ironia nel confondere e sovrapporre sogni e verità, realtà e finzione, come la Cernopol del suo più celebre romanzo (''Un ermellino a Cernopol'') o la Meghrebina di altre sue storie, invenzioni in cui tutto ciò che accade è invece vero, per quanto curioso e particolare. E questo ''Caino'', che è il suo ultimo, più ambizioso, complesso e rivelatorio romanzo, tutto in equilibrio su tale doppiezza si gioca, così, come si fa finta di niente mentre un intero mondo sparisce e precipita nell'orrore (del Novecento).
Il libro, uscito in Germania dopo la morte dell'autore avvenuta nel 1998, appare, ma non lo è sostanzialmente, una prosecuzione del romanzo ''La morte di mio fratello Abele'', in contraltare sin dal titolo. In quello il protagonista Aristide vorrebbe, in un anno come il 1968, scrivere la storia e il senso della propria generazione ma non vi riesce, perché l'inaffidabilità dei ricordi e l'imprevedibilità e la frammentazione della vita glielo impediscono. Così più che un romanzo nascono appunti, abbozzi, riscritture, capitoli, che vanno crescendo e accumulandosi e dando vita a questo secondo lavoro che finisce per rendere ancor meno chiaro e incerto il precedente, cui offre nuove e diverse prospettive molteplici, anche attraverso un succedersi di vari personaggi. Un gioco che finisce per ingannare il lettore, che deve distinguere con molta attenzione, per capire che è proprio nell'ammasso, nelle scritture brevi, nei frammenti la verità, spesso tragica, del nostro tempo. Non a caso uno dei temi è il cinema con le sue capacità di illusioni prodotte da uomini senza scrupoli nella Germania del dopoguerra, con la sua perdita di identità, con quello che oggi diremmo l'inizio della globalizzazione.