Cultura

Calandrone e la madre perduta

Il racconto necessario di una figlia, che trova momenti lirici

Redazione Ansa

(di Paolo Petroni) (ANSA) - ROMA, 16 APR - MARIA GRAZIA CALANDRONE, ''DOVE NON MI HAI PORTATA'' (EINAUDI, pp. 250 - 19,50 euro). ''Scrivo questo libro perché mia madre diventi reale'' afferma sin dall'inizio Maria Grazia Calandrone, spiegando di aver esplorato ''un metodo per chi ha perduto la sua origine, un sistema matematico di sentimento e pensiero, così intero da rianimare un corpo, caldo come la terra d'estate, e altrettanto coerente''.
    L'autrice e oggi nota poetessa la madre, Lucia Galante, non la ha mai praticamente conosciuta, essendo quella bambina che il 24 giugno 1965 fu abbandonata a otto mesi dietro i cancelli di Villa Borghese a Piazzale Flaminio. Una storia che finì per giorni su tutti i giornali col ritrovamento della madre nemmeno trentenne e il padre biologico, Giuseppe Di Pietro, annegati nel Tevere, suicidi, dopo aver imbucato una lettera per 'L'Unità' in cui spiegavano chi era la bambina e che si chiamava Maria Grazia Greco.
    Per arrivare a scrivere questo libro, frutto di una lunga indagine, di ricerca di testimoni, di documenti di archivio, nel tentativo di ricostruire con minuzia e cercar di capire vite precedenti e mosse e motivi di quei gesti estremi. Prima ecco quindi l'Italia provinciale, contadina e perbenista degli anni '50 nelle campagne del Molise e lo svolgersi di una storia al femminile, di pregiudizi e amore, sino alla fine, che è tutta in quella dichiarazione: ''Vengo a te dove non mi hai portata, nella morte'', non tirandosi indietro davanti a nulla, nemmeno lo studio dei cadaveri degli annegati, per trovare qualcosa che la aiuti a spiegare modalità e ragioni.
    Non si pensi però a un giallo dai risvolti neri, che questo è tutt'altro, è un gesto d'amore e di cui si avverte la necessità e che per poter essere espresso ha dovuto aspettare cinquant'anni, raccontando come un romanzo la vita di Lucia, innamorata di Tonino, ma data sposa a un contadino grazie a un suo campo confinante, Luigi Greco detto Centolire, che non la toccherà mai, che la picchia, la umilia, non le dà da mangiare e la usa come serva. ''Io credo questa povera ragazza ha sofferto tantissimo. E che le sue sofferenze sono servite a darti tanto onore a te'', come dice una vecchia del paese, Palata in provincia di Campobasso, rintracciata dalla Calandrone.
    Un romanzo anche quindi di denuncia della condizione femminile in quegli anni, violentata e umiliata, che aiuta a capire. Lucia poi incontrerà Giuseppe, operaio di cui si innamora e col quale, per cercar di trovare un po' di libertà, letteralmente fugge al nord, a Milano, quella agra di Bianciardi, dove comunque arriva la denuncia per adulterio, secondo le leggi sulla famiglia allora ancora in vigore, e le difficoltà economiche e di lavoro si fanno molto pesanti. Le aggrava la nascita della figlia Maria Grazia, che prende il cognome non di Di Pietro, il vero padre, ma Greco, quello del marito della mamma, che scriverà un'aspra, terribile lettera per disconoscere quella paternità. Prendono allora il sopravvento vergogna, sensi di colpa e ''condizioni disperate'': ''Non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla compassione di tutti'', come si legge nell'ultima lettera.
    ''Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e ti guardo, da una vita che forse hai immaginato per me. Adesso vengo a prenderti e ti porto via. Lucia, dammi la mano'', scrive Calandrone e questo ritrovarsi, tutta la storia è narrata appunto come una scoperta di cui il lettore diventa partecipe, grazie a una scrittura alta, vera, priva di sentimentalismi, tesa e intensa, lucida e emotiva tanto che, quando il dolore del dire, il riferire si fa indicibile, si fa lirica e, in alcuni punti, il coinvolgimento si scioglie proprio in versi, acquistando l'immediatezza, la forza antiretorica e la profondità della poesia. ''Ci sono io che dal futuro ti guardo / calarti piano in quello specchio atomico / in quella fine del mondo, e ti guardo / e ti lascio / libera, ti lascio / e, per me, prendo solo da chiarire / la solitudine della tua materia / disabitata. / Siamo dentro una vasca di luce. Ogni passo che faccio verso di te fa un rumore subacqueo''.
    Questo ''Dove non mi hai mai portata'' è una riconciliazione con la figura della madre, che arriva due anni dopo la poetica scrittura in prosa di ''Splendi come vita'' sul rapporto, non facile, tanto da finire infranto e vissuto con dolore sino alla catarsi finale, con la madre adottiva. A proposito Calandrone spiegava: ''Chi scrive rivede oggi la madre con gli occhi di una donna adulta, non più solo come la propria madre, ma come una donna a sua volta adulta, con la sua storia e i suoi propri dolori e gioie. Quando si smette di vedere la propria madre esclusivamente come la propria madre, la si può finalmente 'vedere' come essere separato, autonomo e, per ciò, tanto più amabile''. (ANSA).
   

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