Cultura

Dacia Maraini, la mia vita in prigionia

80 anni dopo torna a quell'esperienza e la rende esemplare

Redazione Ansa

DACIA MARAINI, 'VITA MIA' (RIZZOLI, pp. 224 - 18,00 euro)

A 30 anni da 'Bagheria' e 15 da 'Corpo felice' Dacia Maraini torna al racconto più strettamente autobiografico, ma con uno sviluppo complesso, perché parte dal piano personale e famigliare per allargarsi alla realtà del campo di concentramento in Giappone in cui fu rinchiusa la sua famiglia per non aver voluto aderire alla Repubblica di Salò, quindi alla cultura del paese in cui era cresciuta, per arrivare a riflettere sui lager nazisti e spingersi a indagare la storia del periodo, la natura del fascismo e di quello nipponico in particolare e il valore della libertà.
    È ciò che rende questo racconto, con al centro l'esperienza di internata che ha segnato la sua vita, una lettura interessante, che aiuta l'autrice a prenderne le distanze e a cercar di capire e farci capire, al di là del contingente, quell'esperienza e quel periodo come qualcosa da non dimenticare. "Meglio tacere e chiudere in un cantuccio del cuore le spaventose esperienze del campo - scrive - questo suggerisce l'istinto conservativo. Ma un'altra voce, meno persuasiva e più insistente, invece sprona a parlare, a dire, a rammentare, a testimoniare". Una testimonianza sofferta, che arriva dopo tanti anni, cercando i propri ricordi e assieme si affida quelli di famiglia, alle pagine scritte nei suoi libri dal padre Fosco al libro della sorella Toni, che comprende una lunga intervista su quelle vicende alla loro madre Topazia e le pagine di diario che questa tenne nel primo periodo di prigionia.
    I Maraini vivevano da tempo in Giappone: il padre etnologo era all'università di Kyoto; Dacia, nata in Italia, vi era arrivata da piccolissima, e dopo l'8 settembre 1943, quando vengono imprigionati stava per compiere sette anni, mentre le sue sorelle erano nate li. E la madre Topazia Alliata era donna di mondo ma anche intuitiva e molto pratica, il che sarà d'aiuto in cattività. Qui è un po' al centro del racconto, con la sua volontà di portare con sé le bambine e non affidarle a un orfanatrofio e riuscire a essere utile alle guardie. Quelle guardie molto simili alle SS tedesche, spietate, violente, feroci inutilmente che rendono la vita quotidina un vero, atroce inferno fatto di fame estrema e patimenti inauditi, rubando anche il cibo destinato ai prigionieri.
    Questo quotidiano viene raccontato, ma senza indugiarci, solo per documentare, facendolo anche attraverso gli occhi antiretorici di una bambina, che per fame divora tutte le formiche che trova, sino a sentirsi male per l'acido formico. E poi tutte le discussioni, politiche e culturali, tra il padre e gli altri prigionieri. Così ecco che oggi la scrittrice riesce a collegare e ad aprirsi a riflessioni e citazioni che vanno da note sulla Shoah (di cui ha scritto in 'Il treno dell'ultima notte') a vicende curiose di Santa Chiara, dai versi intensi degli Haiku intensi a Buddha e Confucio, con citazioni da Seneca a Jorge Semprun, per non parlare dei versi nonsense del padre, che in un futuro lontano reciterà anche Gigi Proietti.
    Si arriva via via alla bombe di Hiroshima e Nagasaki con la resa del Giappone e l'annuncio dell'imperatore incomprensibile ai sudditi, perchè fatto in un antico linguaggio di corte in disuso. È, anche se isolati in campagna, il momento della liberazione, il cui senso profondo è in una notazione: "Ero adagiata sull'erba, cosa che mi era stata proibita per due anni, e osservavo con senso di profondo benessere le fronde di un albero che ballavano leggeremente al vento. Era un momento di felicità".
    La conclusione significativa di queste pagine è nella riflessione su una domanda: "Chi ha compiuto dei delitti orrendi può pentirsi, può recuperare la sua umanità e diventare un altro da sé grazie a educazione, consapevolezza e cultura?". La Maraini si risponde "Non lo so", ma sottolinea come oggi si parta anche legalmente dal presupposto che ciò sia possibile e cita le sue lezioni di poesia aI carcerati, quando ha imparato "quanto potente sia la parola colta, la parola poetica, la parola musicale", per concludere che, quando ci si impossessa di un linguaggio espressivo si perde l'interesse per le armi che forse sono un modo di comunicare di chi non riesce a farlo con la parola. Quella parola con cui la Maraini ci restituisce il senso intimo e esemplare di un'esperienza estrema di soli 80 anni fa, parlandoci dell'uomo, dell'umanità, di cosa siamo e di cosa possiamo diventare, come poi ha fatto in tutta la sua carriera di scrittrice e intellettuale pronta a schierarsi, a cercar di spiegarsi e spiegare.

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