Cultura

Katja Petrowskaja, 'La foto mi guardava'

57 immagini 'parlano' per ritrovare un senso nel mondo in guerra

Redazione Ansa

KATJA PETROWSKAJA, 'LA FOTO MI GUARDAVA' (ADELPHI, pp. 260 - 24,00 euro - Traduzione di Ada Vigliani)

Questo bel libro, sin dal suo titolo 'La foto mi guardava', si fa soprattutto invito, nell'epoca in cui pare si comunichi solo per immagini, che ci sommergono spesso perdendo senso, a guardarle e guardare il mondo nuovamente con attenzione, con intenzione, per coglierne lo sguardo, il racconto. Ecco allora, col titolo 'Guardare e essere guardati', una foto del Muro di Berlino, dopo l'apertura, scattata da un Ponte di Ispezione della polizia della Germania Est. C'è il muro e, da una parte, un parco con tanta gente, tende e edifici e, dall'altra, una zona spoglia, la ex striscia della morte, dove ora giocano due ragazzi e passeggia un uomo: "Il fotografo aveva una veduta d'insieme, ma non era, nemmeno da quel ponte, nella posizione di chi può interpretare, e proprio questo era il segno dei tempi nuovi: si guardava, ma non si ispezionava più, non si deteneva più il controllo".

Il segno dei tempi, tempi di guerra. E Petrowskaja sottolinea: "Questo libro non parla della guerra, ma è stretto nella morsa della guerra", e il primo pezzo risale a quando l'Est dell'Ucraina venne attaccato dalla Russia... che oggi rade al suolo città e villaggi ucraini". Così l'interpretazione di un'immagine, che non è comunque mai oggettiva, diventa difficile e si può solo lasciarla parlare, che sia lei a raccontarsi. La prima foto che parla, che la guarda, viene dal Donbass e ritrae un minatore di Krasnoarmijs'k che fuma: "Quella vicinanza mi ipnotizzava, ne ero addirittura spaventata. Non sapevo nemmeno dove si trovasse quel posto eppure quell'uomo era lì davanti a me, sin troppo vicino, mi soffiava in faccia il fumo della sua sigaretta". Tra case bombardate, foto militari, feriti perché proprio quella foto? Era di una donna che lavorava vicino al fronte e aveva intitolato i suoi scatti 'Non fotografateci, altrimenti quelli vengono e sparano', come le aveva detto qualcuno, quasi avesse saputo giocare col doppio significato della parola inglese shoot: "È la logica della guerra o quella dell'arte?". È praticamente l'introduzione alle 57 foto che si raccontano, di cui Petrowskaja raccoglie la voce, il messaggio, la storia, dando vita a un libro di riflessioni nell'arco di quasi 10 anni.

Nel 2014, quando la Russia si impossessò della Crimea, luogo perduto della sua infanzia, non riusciva più a lavorare: "Cercavo una nuova forma, un nuovo atteggiamento per poter ricominciare a scrivere, anche sulle cose che amo. E furono le fotografie a sostituire l'inespresso, a offrire il frammentario". La guerra uccide, cancella e "vorrei opporre alla guerra queste miniature, questi piccoli frammenti, alla ricerca di una voce". La scrittrice, autrice di uno straordinario romanzo, 'Forse Esther', indagine a ritroso sulla seconda guerra mondiale e sul Novecento con i suoi interrogativi (sempre edito in italiano da Adelphi), in ognuno dei "racconti", prende una foto (riprodotta accanto al testo), la osserva, ci entra dentro descrivendola, cogliendone particolari che sfuggono, attenta alla luce e al resto, per poi farsene catturare e ascoltarne la voce, seguire un racconto e la riflessione che ne scaturisce.

I racconti sono tutti da leggere, perché procedendo rivelano un'unità, una visione, un sentimento del tempo collettivo e personale. Non a caso ci paiono centrali e rivelatorie le due foto di famiglia di Petrowskaja. Quella di lei piccola col padre che, stampata al contrario, induce a riflessioni che si riveleranno così sbagliate rispetto al reale, e il ritratto 1977 di tutta la famiglia vestita con camicie e abito a fiori: "Quando sento parlare di cortina di ferro, penso sempre alla nostra cortina di fiori, dietro la quale non si vede l'inferno sociale in cui i miei genitori erano confinati", con la madre che mantiene tutti lavorando 12 ore al giorno perché al padre, professore universitario, era stata negata qualsiasi opportunità di lavoro, mentre lei, bambina, "come Alice nel Paese delle Meraviglie, perché il mio gatto sorrideva e il mondo di fuori aveva stabilito per noi le regole più assurde, incomprensibili a una bambina". Quella bambina che poi dedicherà la vita, con la scrittura, a capire e cercare di far capire. 
   

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