di Domenico Conti
"Non c'è impresa americana che non abbia il piano B di uscita dalla Cina, per rimpatriare almeno in parte la sua 'supply chain'". Merito di una strategia, quella di Trump, che tutti, dall'Asia all'Europa, si stanno sforzando di decifrare, leggendola attraverso i suoi tweet, le contraddizioni, le iperboli subito smentite.
In realtà quello che sta facendo Trump al commercio globale, fra gli allarmi del Fondo monetario internazionale o delle banche centrali, è brutale e spregiudicato da una parte, e sofisticato dall'altra. "La brutalità è proprio nel creare incertezza", spiega all'ANSA Alberto Forchielli, economista, investitore che dirige il fondo Mandarin e gran conoscitore delle dinamiche commerciali globali e della Cina in particolare. Un'incertezza sul futuro, sulle normative, i dazi, le regole, che punta a costringere tutte le grandi compagnie che dagli Usa hanno imboccato la strada dell'esodo producendo in Cina, come Apple, a tornare in patria.
La partita numero uno del presidente Usa, che vuole arrivare al voto di mid term con dei risultati da sbandierare al mid west desertificato della sua industria, è con la Cina. Le cannonate partite con i dazi su 50 miliardi di export cinese sono un avvertimento. Il risultato è un'incertezza che costringe le grandi corporation americane - inclusa la Apple - a ripensare la propria strategia d'investimento, tornando a investire in stabilimenti sul suolo a stelle e strisce. O almeno ad essere meno dipendenti dalla Cina, ad esempio spostando la produzione in Paesi più attenti agli interessi americani come Vietnam o Bangladesh. Di più: "non esiste impresa multinazionale non americana che non stia contemplando di aumentare gli investimenti negli Usa, per crearsi un paracadute una volta che ci saranno i dazi".
Un'offensiva che promette di essere durissima, spiega Forchielli al telefono da Boston. Perché ormai l'America si considera in guerra: il sostegno a Trump sul commercio è bipartisan, Trump viene costantemente superato a destra da membri del Congresso". Ma soprattutto perché la battaglia ingaggiata dal presidente Usa va a fondo, è più complessa di quel che sembra. La vera conquista ottenuta dalla Cina con l'ingresso nel Wto, nel 2001, non fu infatti tanto sul piano 'doganale', ma su quello degli investimenti diretti: "con l'accesso al Wto, che rese permanente lo status di 'most-favorite nation' fino ad allora concesso annualmente, c'è stata un'ondata di investimenti verso la Cina che ha svuotato l'hinterland americano" di industrie, spiega Forchielli. Trump, adesso, "sta smontando il Wto con una strategia mirata a creare incertezza scompaginando totalmente il flussi degli investimenti globali cross-border".
Vista dagli occhi di un manager, l'offensiva di Trump, allargata ora alle auto europee, all'alluminio e all'acciaio, "è tale da far impazzire le aziende, costrette a prendere una componente in Cina, una in Messico", racconta Forchielli. "E' tutto scientificamente mirato a provocare una deflagrazione della supply chain globale". L'obiettivo sarà centrato quando Trump avrà creato due 'supply chain', due catene di approvvigionamento per la grande industria, globali. "E a quel punto l'Europa dovrà scegliere se stare a destra o stare a sinistra. Se vuoi vendere in Occidente devi comprare i pezzi in occidente, se vuoi vendere in Oriente dovrai approvvigionarti in Oriente".