La Fed alza i tassi di interesse dello 0,75% per la terza volta consecutiva portandoli al livello più alto dal 2008. E non intende fermarsi: di fronte a un "un'inflazione che resta elevata" gli attuali aumenti "sono appropriati", dice la banca centrale americana, prevedendo per la fine di quest'anno tassi medi al 4,4% e addirittura al 4,6% nel 2023.
Previsioni da falco che aprono la strada a nuovi possibili rialzi anche da parte della Bce, spingono il dollaro ai nuovi massimi da 20 anni nei confronti dell'euro e lasciano riflettere Wall Street. Così dopo un avvio in positivo i listini americani hanno bruciato i guadagni per poi cercare di recuperare e limitare le perdite. A spaventare gli investitori oltre alla campagna aggressiva di rialzi del costo del denaro è la frenata della crescita e la possibilità di una recessione. Secondo le stime aggiornate della Fed il pil americano è atteso salire quest'anno di un modesto 0,2%, decisamente meno dell'1,7% previsto in precedenza, con un tasso di disoccupazione al 3,8% e un'inflazione al 5,4%.
La decisione della Fed ha avuto conseguenze negative sui mercati. A Piazza Affari, avvio di seduta in evidente calo, con il primo indice Ftse Mib che segna un ribasso dell'1,49%, e l'Ftse All share con un segno negativo dell'1,43%.
I prezzi sono attesi calare al 2% solo nel 2025 (2,8% nel 2023 e 2,3% nel 2024), segnalando per la Fed una lunga battaglia ancora da portare avanti. "Non c'è una strada indolore per lasciarci l'inflazione alle spalle", ha ammesso il presidente Jerome Powell. "I recenti indicatori puntano a una modesta crescita della spesa e della produzione. Il tasso di disoccupazione resta basso. L'inflazione invece è elevata riflettendo gli squilibri fra offerta e domanda legati alla pandemia, gli elevati prezzi di cibo e energia e più ampie pressioni inflazionistiche", ha affermato la banca centrale nel comunicato finale diffuso al termine della due giorni di riunione dalla quale è emersa una Federal Reserve compatta. La decisione di alzare i tassi di 75 punti base è stata infatti presa all'unanimità.
"La guerra in Ucraina sta creando ulteriori pressioni al rialzo sull'inflazione e sta pesando sull'attività economica globale. Siamo attenti ai rischi di inflazione", mette in guardia la banca centrale, i cui membri prevedono un aumento dei tassi di almeno l'1,25% entro la fine dell'anno a una media del 4,4%, decisamente più alti della stima del 3,4% di giugno. Il prossimo anno sono attesi raggiungere il picco del 4,6%.
La Fed è "impegnata a riportare l'inflazione all'obiettivo del 2% e ha gli strumenti e la determinazione per farlo", ha spiegato Powell, ricordando come la stabilità dei prezzi è il "fondamento" di una crescita stabile, duratura e sostenibile. Ai prezzi che corrono la banca centrale opporrà una politica monetaria "sufficientemente restrittiva" nel tentativo di calmierarli. "Al momento siamo al punto più basso della forchetta che indica cosa riteniamo come restrittivo", mette in evidenza il presidente della Fed, intravedendo all'orizzonte un indebolimento del mercato del lavoro in seguito alla campagna rialzista del costo del denaro. "Vogliamo vedere prove chiare" di un calo dell'inflazione, aggiunge Powell osservando come a un certo punto la velocità dei rialzi dei tassi dovrà rallentare. "Le decisioni - ribadisce - sono prese sulla base dei dati economici e riunione per riunione per riunione". Ribadendo l'impegno della Fed ad andare avanti nella sua battaglia fino a quando i prezzi non saranno scesi al 2%, Powell ammette che centrare l'obiettivo di un 'atterraggio morbido' è molto difficile ma, spiega, "nessuno sa" se la politica della Fed porterà a una recessione. Una frenata dell'economia è chiara in Europa. I dati segnalano un "considerevole" rallentamento della crescita, e la guerra resta un fattore chiave di rischio per il pil, osserva il vicepresidente della Bce, Luis De Guindos, prevedendo l'economia della zona euro avviarsi verso una stagnazione a fine anno, con i rischi dell'inflazione che restano al rialzo. E proprio i prezzi alti - avverte - possono aiutare i politici populisti ad avere successo.
La decisione della Bank of Japan di mantenere i tassi fermi a livelli molto bassi, isolandola ancor più dal generale andamento di rialzi nel mondo, ha mandato lo yen ai
minimi dal 1998. La valuta nipponica, che ha perso il 20% da inizio anno, segna un calo dello 0,9% a 145,3 sul dollaro.