La cessione di una fetta della partecipazione pubblica di Poste scatterà solo quando ci saranno le condizioni per "massimizzare" il valore per lo Stato. E' questa la linea su cui si muove il Ministero dell'Economia, in un'operazione che punta a "salvaguardare il controllo pubblico strategico". Timing e condizioni sono ancora da stabilire. Ma già si calcola che cedendo l'intera quota del Mef si potrebbero incassare 4,4 miliardi e che l'operazione, che potrà avvenire "anche in più fasi", nei primi step potrebbe portare l'asticella al 51%.
A fare chiarezza sull'operazione è il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, che in audizione davanti alle commissioni riunite di Camera e Senato entra nel dettaglio dell'iter avviato due mesi fa con il Dpcm approvato dal Consiglio dei ministri e ora all'esame del Parlamento. E difende anche l'operazione del governo per cedere il 49% di PagoPa proprio a Poste, bacchettata nei giorni scorsi dall'Antitrust. Le valutazioni "le abbiamo lette, le stiamo valutando e cercheremo di dare una risposta", ma nessun passo indietro: "intendiamo andare avanti" perché la consideriamo "un'operazione di razionalizzazione di sistema", spiega, assicurando che non c'è "nessuna volontà strumentale di fare una specie di aggiotaggio di Borsa". Il dpcm su Poste è "una cornice", spiega Giorgetti. Individua un valore minimo (il 35%) della partecipazione dello Stato, che oggi detiene complessivamente il 64%, di cui il 29% direttamente attraverso la quota in mano al Mef, e il 35% indirettamente attraverso Cdp. Valore che potrà essere raggiunto "progressivamente e in più fasi", puntualizza: ciò significa che nelle prime fasi "il governo potrebbe anche fermarsi al 51%", considerata "un'asticella soddisfacente". Si tradurrebbe nella cessione di circa il 13% per un introito vicino ai 2 miliardi. Le risorse ottenute dipenderanno dall'ammontare dalla quota: se si procedesse alla cessione dell'intero 29% detenuto dal Mef, il controvalore in base ai dati di mercato disponibili "potrebbe ammontare a circa 4,4 miliardi", dice Giorgetti, puntualizzando comunque che tutto dipenderà dalla "tempistica".
Le risorse ottenibili, comunque, "si concretizzeranno in una riduzione del debito" che, a sua volta, consentirà di ottenere 200 milioni annui di risparmio in termini di spesa per interessi. Il momento giusto sarà quello "più adeguato alla massimizzazione dell'introito realizzabile". L'orizzonte è comunque quello triennale (2024-26) del Piano di dismissioni da circa 20 miliardi fissato nella Nadef. E in questo quadro anche Poste, come tutte le altre operazioni di dismissione, non è il controllo pubblico è assicurato. Il ministro rassicura anche sui livelli occupazionali: il Piano industriale non "contempla alcun impatto negativo", ma comunque monitorerà le decisioni aziendali per "garantirne la salvaguardia". E per cogliere il "senso profondo" dell'operazione, Giorgetti invita ad abbandonare "l'approccio meramente contabile di fare 'dividendi meno interessi'". Respinge al mittente le accuse che arrivano dalle opposizioni di "svendita" e ricorda il caso di Eni e Enel, dove con lo Stato sotto il 50% si è avuto un miglioramento delle performance e anche dei dividendi.
Inoltre queste operazioni "vanno considerate in modo complessivo, perché rappresentano la postura di un governo nei confronti dei risparmiatori e del mondo", spiega: vanno infatti considerati anche gli effetti "sulla fiducia degli investitori" verso l'Italia, che potrebbero tradursi in un "miglioramento dell'appetibilità del debito pubblico", con ricadute positive su riduzione dello spread e costo del debito. Rassicurazioni sull'operazione arrivano anche dalla società. La variazione dell'assetto azionario "non cambia" il ruolo di Poste né la strada tracciata con il nuovo piano strategico al 2028, dice l'a.d. Matteo Del Fante sempre in audizione. E allontana il rischio di chiusura di uffici postali o condizionamenti nella politica per le acquisizioni: "Ricadute? Nessuna".