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Trump: 'Pechino dà il petrolio a Pyongyang'. Cina: 'Non è vero'

La Cina: 'Report americano non accurato'

Donald Trump

Redazione Ansa

Il report su vendita e trasbordo di petrolio da una nave cinese a una nordcoreana, denunciato dal presidente americano Donald Trump come esempio di mancata collaborazione di Pechino nell'attuazione delle sanzioni contro Pyongyang, "non è accurato". E' la risposta della Cina affidata alla portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying, secondo cui Pechino non permetterà mai alle compagnie nazionali di "violare le risoluzioni dell'Onu".

L'ira di Trump con la Cina,'basta petrolio a Pyongyang'  - Pechino continua a fornire petrolio al regime di Kim Jong-un in barba alle sanzioni votate dal Consiglio di sicurezza dell'Onu. L'accusa arriva dalla Casa Bianca, ed e' corroborata dalle immagini dei satelliti Usa che mostrano una nave battente bandiera cinese che dal mese di ottobre almeno 30 volte ha rifornito al largo della penisola coreana un'imbarcazione di Pyongyang. "Colti in flagrante", attacca il presidente americano su Twitter, tornando a minacciare le maniere forti a scapito della via diplomatica: "Sono molto deluso che la Cina stia permettendo che il petrolio arrivi in Corea del Nord. Non ci sarà mai una soluzione amichevole se questo continua a succedere", il monito di Trump, che intanto si appresta a lanciare una nuova sfida alla comunita' internazionale. Dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, infatti, il suo prossimo obiettivo e' lo storico accordo sul programma nucleare dell'Iran. Il presidente americano - secondo le testimonianze raccolte da Politico - sta valutando farne definitivamente carta straccia al suo rientro alla Casa Bianca dopo la pausa di fine anno. Cancellando cosi' uno dei risultati piu' importanti raggiunti in politica estera da Barack Obama. Che Corea del Nord e Iran siano le principali sfide in politica estera dell'inizio del 2018 lo conferma anche il segretario di stato Usa Rex Tillerson che, nonostante i noti dissapori col presidente, ribadisce in una lettera aperta al New York Times come Trump abbia buttato a mare la "fallimentare strategia della pazienza di Obama". Per quel che riguarda l'Iran in particolare, il tycoon il suo ultimatum lo aveva gia' lanciato a meta' ottobre: se lavorando con il Congresso e con gli alleati non riusciremo a migliorare "il peggior accordo di sempre" questo sara' cancellato. Passati piu' di due mesi il presidente americano giudica nulli i progressi fatti e sarebbe piu' che mai determinato a mantenere quella che e' stata una delle sue principali promesse elettorali. Anche a costo di dare un altro schiaffo all'Onu e ai principali alleati europei. E di far irritare Russia e Cina, anch'esse firmatarie dell'intesa con Teheran siglata nel luglio del 2015. "Vuole uccidere l'accordo", racconta chi gli sta vicino in questi giorni nella reggia di Mar-a-Lago, in Florida. E per farlo potrebbe approfittare di un paio di scadenze che gli si presentano davanti proprio all'inizio del nuovo anno. La prima e' quella dell'11 gennaio, quando come ogni 90 giorni il presidente americano dovra' verificare se l'Iran stia rispettando gli impegni presi. Secondo gli ispettori inviati dalla comunita' internazionale fino ad oggi non vi sarebbe alcuna seria violazione. Ma nonostante cio' Trump si e' finora rifiutato di avallare questo giudizio, accusando Teheran di sostenere il terrorismo e di destabilizzare l'area. La seconda deadline e' quella tra il 12 e i 17 gennaio, quando Trump dovra' decidere se continuare a 'congelare' quelle sanzioni verso Teheran che in base all'accordo non potranno essere eliminate ancora per molti anni. Finora e' sempre stato fatto, ma il tycoon adesso potrebbe essere tentato dal reintrodurle. Per gli esperti sarebbe l'inevitabile rottura col regime degli ayatollah, che per rappresaglia potrebbe davvero far ripartire il programma nucleare. Per questo tale opzione viene fortemente contrastata ai massimi livelli nell'amministrazione Usa: dallo stesso segretario di stato Rex Tillerson al capo del Pentagono James Mattis, passando per il consigliere per la sicurezza nazionale H.R.MacMaster.
   

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