L'ultimo bambino di Auschwitz lasciò il campo di sterminio nazista il 2 marzo del 1945. 'Era mezzogiorno e come sempre il cielo era basso e grigio. Sono stato l'ultimo a uscire. Di fatto sono io che ho chiuso il cancello dell'orrore', racconta il bambino che si chiama Oleg Mandic e che oggi ha 86 anni ed è un uomo alto ed elegante, con grossi baffi bianchi e un sorriso sereno con cui si difende dai ricordi di quegli anni.
Dell'inferno di Auschwitz-Birkenau Mandic ha parlato in molte occasioni, ha scritto un libro ed è diventato un testimone degli orrori che può concepire e produrre l'essere umano, uno di coloro che prova a conservare la memoria per le generazioni future. In questo incontro con l'ANSA, a margine del premio giornalistico Papa Hemingway di Caorle dove è stato ospite d'onore, Mandic si è soffermato soprattutto sui nove giorni che decisero la sua vita, quelli trascorsi tra la fuga dei tedeschi e l'arrivo dei russi.
'Era il gennaio del 1945, la temperatura era costantemente sotto zero, c'era la neve ovunque, il cielo era un tetto di nuvole, in sette mesi al campo non ho mai visto il sole. Era impossibile perché il fumo dei forni crematori formava una cappa continua su di noi. L'aria sapeva di unto....', inizia a raccontare Mandic. I tedeschi erano pronti a lasciare il campo. 'I russi erano vicini, vedevamo nel cielo le linee dei razzi Katyusha. I nazisti cominciarono a raccogliere i prigionieri per portarli con loro. Eravamo in novantamila nel campo e alla fine ne portarono via più di ottantamila con loro'.
Ma il piccolo Oleg riuscì a nascondersi e a rimanere ad Auschwitz dove era stato imprigionato con la madre e la nonna per la 'colpe' del padre e del nonno, 'collaboratori' dei partigiani di Tito. Questo ragazzino di dodici anni con la madre e la nonna si nascose insieme ad altri 5500 prigionieri tra la baracche e rimase lì nel campo vuoto per nove giorni fino a quando l'esercito sovietico entrò ad Auschwitz. Furono gli ultimi tre a lasciare il campo il 2 marzo.
'Di quei 5500, in nove giorni ne morirono 1100. Alcuni perché mangiarono troppo. Aprimmo i magazzini ma i nostri poveri organismi non erano pronti per tutto quel cibo. Altri perché il nostro ciclo biologico era stato stabilito in sette mesi dalle condizioni di vita imposte dai nazisti. Sette mesi: questo era il tempo che doveva vivere un prigioniero. E questo accadeva'.
Mandic racconta i momenti della fuga dei nazisti come in un film. 'Stavano per scoprirci. Erano a pochi metri da noi, ma avevano fretta. Sentivo le grida dei comandanti: 'schnell, schnell'. Se ne andarono via tutti e cominciarono la 'marcia della morte', non ci sono numeri precisi, molti riuscirono a fuggire, moltissimi morirono di stenti o furono uccisi. Arrivarono in quarantamila, la metà di quelli che erano partiti'.
Furono nove giorni di attesa. Poi una notte accadde il miracolo. 'Stavo dormendo ma fui svegliato da un brusio. Vidi un gruppo di donne e in mezzo a loro un soldato russo. Erano arrivati. C'erano candele a illuminare la baracca e il viso del soldato era circondato da un alone. Sembrava un dio, il soldato più bello che io abbia mai visto'. Poi il trasferimento a Cracovia e quindi a Mosca. Infine, dopo un viaggio durato mesi, il ritorno ad Abbazia, nell'attuale Croazia.
I ricordi di Oleg sono tanti, ma sono tutti precisi e nitidi, scolpiti dal dolore e dall'orrore. Fra tutti, la storia di Tolja, l'amichetto conosciuto nel famigerato reparto di Jozef Mengele, il 'dottor morte' che usava i bambini come cavie per gli esperimenti sulla purezza della razza. 'Ricordo Mengele, non alzava mai la voce, contrariamente a quello che facevano tutti i soldati. E ricordo Tolja, era più piccolo di me ed era ucraino. Dormivamo uno accanto all'altro. Io gli raccontavo del mare che lui non aveva mai visto. E lui mi parlava delle immense distese di grano delle praterie ucraine. Era malato, aveva la febbre e tremava sempre. Una mattina mi sembrava che stesse meglio perché non tremava più. Mi avvicinai a lui e capii che non avrebbe mai più tremato'.
Un altro ricordo è quello che riguarda i due uccellini che Oleg sentì cinguettare quando tornò ad Auschwitz molti anni dopo. 'Mi colpì molto perché non aveva mai visto un uccellino in sette mesi nel campo e neanche un filo d'erba. D'altra parte, come era possibile che ci fossero uccelli e piante dove non batte mai il sole, dove il sole non riusciva a bucare il fumo dei crematori'.
La vita di Oleg si intreccia con la Storia. Nato italiano, la sua famiglia è stata austriaca e poi croata, travolta dai destini di quell'angolo di Europa. Un'ultima domanda. Come si sopravvive a tutto questo? 'L'ho capito un paio di anni dopo essere uscito da Auschwitz. Ero un ragazzino ma dovevo trovare un modo per andare avanti, una ragione all'orrore. E allora ho realizzato che il peggio era passato. E che tutto quello che sarebbe venuto dopo nella mia vita sarebbe stato meglio'. Ed è stato così? 'Sì, è stata una vita bellissima'.