La guerra totale contro una nazione nella quale molti hanno legami strettissimi; le sanzioni occidentali che minacciano il rublo, l'economia russa tout court e i loro patrimoni siderali; ora persino l'ombra dell'incubo nucleare. Fra gli oligarchi moscoviti del business - quelli arricchitisi durante le privatizzazioni selvagge degli anni '90, ma anche quelli venuti alla luce o rimasti a galla nel ventennio del potere di Vladimir Putin - c'è chi incomincia a non poterne più della guerra in Ucraina.
Non è ancora una rivolta in piena regola, sul modello di quella costata la galera e l'esproprio a inizio anni 2000 a figure come l'ex patron dell'ormai defunto colosso petrolifero Yukos, Mikhail Khodorkovski. Ma i nomi che si allineano nell'elenco di chi stavolta appare deciso a esporsi in una presa di distanza dallo zar del Cremlino e dalla sua corte di uomini provenienti dai ranghi dei 'silovikì' - i veterani dei servizi, delle forze armate, degli apparati russi - sono importanti. Le prime critiche esplicite di super miliardari storici portano la firma di due pesi massimi come Oleg Deripaska e Mikhail Fridman: pronti addirittura a strizzare l'occhio alle proteste di piazza di questi giorni, sfociate nella solita raffica di arresti.
Mentre più sfumata appare la posizione dell'astutissimo Roman Abramovich, sempre più a rischio di vedersi tagliato fuori dall'impero (squadra di calcio del Chelsea inclusa) che si è costruito a Londra, il quale ha preferito al momento inventarsi come mediatore volontario a margine dei problematici negoziati avviati oggi tra Mosca e Kiev alla ricerca delle condizioni di una qualche tregua: su richiesta "della parte ucraina" e non si sa con quanto favore del Cremlino. Il più netto è stato Deripaska, imparentato con la famiglia del primo presidente post sovietico Boris Ieltsin e finora re intoccabile dell'allumino russo, che sui social media non solo ha inneggiato alla "pace", ma ha decretato la morte "del capitalismo di Stato" nel suo Paese, uno dei pilastri su cui si regge il putinismo. Friedman, azionista di riferimento del gruppo Alfa Bank, accreditato di una fortuna personale pari a 15 miliardi di dollari, ha indirizzato di rincalzo un messaggio ai dipendenti del suo fondo d'investimento londinese per dire che "la guerra non può mai essere la risposta". Poi, interpellato dal Daily Telegraph, ha ribadito il concetto non senza ricordare la propria storia di figlio di una famiglia ebraica russofona vissuto in Ucraina "fino a 17 anni" prima di trasferirsi a Mosca: fiero - ha notato - della "cittadinanza russa", ma anche "profondamente attaccato a Leopoli", suo luogo di nascita e sua "città preferita" al mondo. Segnali chiari di disagio rispetto alle ultime scelte di un presidente il cui potere, pur senza sopravvalutare il peso politico attuale degli oligarchi superstiti, potrebbe rivelarsi presto o tardi non più così granitico.
Abramovich, che ha per ogni evenienza ha anche un passaporto israeliano, ha invece fatto sapere attraverso un portavoce del Chelsea - club di cui ha già annunciato di voler cedere la gestione, ma che al momento resta suo - di aver accettato l'invito del produttore cinematografico ucraino Alexander Rodnyansky (attivo come lui in seno alle comunità ebraiche dell'ex Urss) a "dare sostegno alla ricerca di una soluzione pacifica". Anche se "la sua influenza - nelle parole di questo intermediario - sarebbe ormai "limitata"; e la sua presenza diretta ai negoziati in Bielorussia, data per certa dal Jerusalem Post, non ha trovato conferma.
Intanto, fra i personaggi dell'elite moscovita, c'è chi lascia esprimere il malumore ai propri rampolli annidati in Occidente. Come nel caso di una delle figlie dello stesso Abramovich, la 27enne Sofia: che nei giorni scorsi da Londra ha postato un messaggio di denuncia - senza se e senza ma - "della guerra di Putin" e "della propaganda del Cremlino". O di Ayshat Kadyrova, primogenita del feroce uomo forte della repubblica autonoma russa della Cecenia, Ramzan Kadyrov, finora fedelissimo plenipotenziario di Vladimir Vladimirovic nel Caucaso: che da Parigi, dove disegna modelli ispirati alla tradizione islamica della sua gente, ha diffuso pure un grido di pace a caratteri cubitali via Instagram: "NESSUNO vuole la guerra!".
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