Di lui non si conosce neppure il nome, che viso avesse, il colore dei capelli, se aveva i genitori, parenti, dov'era nato, niente. La cronaca dalla guerra racconta solo che era un ragazzino di 15 anni, che i missili lanciati dall'esercito russo ieri pomeriggio su Odessa hanno spazzato via in un momento la sua piccola esistenza.
Del resto, le bombe non hanno occhi né discernimento: il bersaglio dei missili Oniks lanciati dai droni dell'esercito di Mosca, si è saputo oggi, era un hangar vicino a Odessa dove - secondo la versione russa - venivano consegnate e custodite le armi inviate all'Ucraina dai Paesi europei e dagli Usa. I vertici militari russi specificano che nell'attacco sono stati colpiti e distrutti velivoli senza pilota Bayraktar TB2, razzi e munizioni ricevuti da Kiev da "Paesi stranieri". Il portavoce del ministero della Difesa Igor Konashenkov ha spiegato ai giornalisti che quei "missili ad alta precisione hanno sferrato un colpo vicino a Odessa su un centro logistico di un campo d'aviazione militare". L'alta precisione delle bombe però è solo un concetto astratto. Perché le esplosioni non hanno solo ridotto in macerie l'hangar e le armi pronte ad essere usate contro le truppe russe. Hanno pure aperto una voragine nell'affetto di chi ha perso quel ragazzo di 15 anni, di chi forse disperso chissà dove dalle vicissitudini del conflitto non sa neppure di aver perso un nipote, un fratello, un parente caro. Un giovane che senza neppure pensarci ha scelto la solidarietà al posto dell'autoconservazione. Ma sono ipotesi, immagini che rimbalzano da migliaia di chilometri per cercare di farsi una ragione, qualunque ragione, di eventi che lasciano nella memoria il segno nero della perdita.
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