Una resa obtorto collo, concessa solo "kicking and screaming" come si dice in inglese: scalciando e strillando. E per di più con la pretesa di una percorso di dimissioni a tappe contestato già da molti e al prezzo di un bagno di sangue di defezioni dal governo Tory, dopo la crisi innescata dall'ultimo, fatale scandalo di una premiership che si avvia a concludersi dopo soli tre anni. E tuttavia una resa senza strappi istituzionali, alla fine, per Boris Johnson: lontana dall'epilogo americano della presidenza di quel Donald Trump indicato a volte troppo semplicisticamente come un clone d'oltre Oceano. BoJo si è oggi rassegnato all'inevitabile - all'undicesima ora e qualche minuto - e ha annunciato il passo indietro che ormai quasi tutti, dentro e fuori il partito, gli sollecitavano.
La caduta di Boris Johnson, dalla Brexit agli scandali
In un discorso alla nazione, portato a termine senza lacrime e con lo sforzo evidente di non rinnegare se stesso, ottimista e assertivo malgrado tutto, ha formalizzato la rinuncia al ruolo di leader del partito di maggioranza, ruolo che gli era valso di diritto la poltrona di quattordicesimo primo ministro del lungo regno di Elisabetta II. Sebbene riservandosi di restare a Downing Street - dove intanto ha ricostituito con nomine crepuscolari almeno il consiglio di gabinetto - sino al termine dell'iter per l'elezione in seno alla parrocchia Tory di chi, uomo o donna, gli succederà al culmine di una corsa già affollata di personaggi ancora in cerca d'autore: ossia fino a settembre-ottobre, complice il recesso parlamentare della pausa estiva che scatta fra due settimane, salvo che il Comitato 1922, sinedrio del gruppo conservatore alla Camera dei Comuni, non trovi il modo di accelerare i tempi. E di stanare Boris da Number 10 almeno prima dell'autunno: se non "subito", come vorrebbero in nome "dell'interesse del Paese" e di un minino di stabilità tanti nemici interni (in primis l'ex premier John Major) e i leader di tutte le forze di opposizione; con il laburista Keir Starmer pronto a minacciare altrimenti un'imbarazzante mozione di sfiducia dimostrativa a Westminster contro il governo uscente, spalleggiato da chi come il liberaldemocratico Ed Davey già bolla 'il biondo' come "peggior primo ministro della storia britannica".
"Lascio ma non avrei voluto farlo", ha replicato dal canto suo Johnson dal podio sistemato secondo costume dinanzi al portoncino al numero 10 di Downing Street, fra gli applausi di un drappello di ministri e funzionari più fedeli e della giovane consorte Carrie, sorridente in faccia alla sventura con la figlioletta Romy in braccio; ma anche sullo sfondo delle ovazioni irridenti di attivisti e oppositori radunatisi a qualche isolato di distanza.
Non senza rivendicare come meriti di cui essere "immensamente orgoglioso" quelli d'aver portato a compimento la Brexit, fatto uscire il Paese dalle restrizioni Covid "per primo in Europa" o d'averlo schierato in prima fila accanto all'Ucraina. BoJo ha quindi ringraziato il popolo britannico, ricordando polemicamente il consenso ricevuto alle elezioni del 2019: un mandato colossale che lo ha spinto - si è giustificato - a cercare di restare premier fino all'ultimo considerandolo come un "obbligo". Detto questo ha riconosciuto che il gruppo parlamentare conservatore vuole ora "un nuovo leader" e che "in politica nessuno è lontanamente indispensabile". Quindi ha riservato una stoccata ai 'traditori' che oggi "si sentiranno sollevati", pur senza esagerare: "Quando il gregge si muove - ha ironizzato - si uniscono tutti". "Ma il nostro sistema darwiniano riuscirà a trovare un nuovo leader a cui darò tutto il mio sostegno", ha concluso, evocando addirittura un'immaginaria età "dell'oro" per l'isola fuori dall'Ue. Un futuro che peraltro spetterà ad altri realizzare, semmai. Mentre il presente - al di là delle rassicurazioni sul sostegno incrollabile a Kiev contro l'invasione russa rinnovate a Volodymr Zelensky in un'ultima telefonata fra amici condita di rammarico e reciproci elogi - resta segnato da incognite e timori di caos. Dalle ferite che il suo passaggio, i colpi di coda di una Brexit divisiva, le tante vicende controverse che l'hanno coinvolto, dal Partygate in giù, lasciano in ogni modo in eredità nel partito come nel sistema politico nazionale. Senza contare gli effetti della sua resistenza a oltranza di questi ultimi giorni, l'immagine da bunker costruita attorno a Downing Street quando - dopo le bugie o le mezze verità dello scandalo Pincher - una cinquantina fra membri senior e junior dello stesso governo l'aveva già abbandonato. A suggellare la conclusione di un'era di cui oggi inizia la sepoltura.
Regno Unito, Johnson: 'In un momento difficile un governo deve andare avanti'
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