Dopo oltre quattro mesi di conflitto a Gaza gli Stati Uniti e i partner arabi stanno accelerando i propri sforzi per realizzare un piano di pace a lungo termine in Medio Oriente. Lo rivela il Washington Post, riferendo che si lavora anche ad una tempistica precisa per la creazione di uno Stato palestinese. Il primo passo, un cessate il fuoco tra Israele e Hamas di sei settimane, durante le quali Washington annuncerebbe il progetto e la formazione di un governo palestinese ad interim.
Una strategia ambiziosa che però rischia di infrangersi sul muro di Benyamin Netanyahu, da sempre contrario alla soluzione dei due Stati: "Non è tempo di regali", è stato il commento del suo portavoce all'iniziativa americana, che è suonato come una bocciatura. Il piano di pace, secondo il Wp, è legato ai negoziati per una tregua finalizzata al rilascio di altri ostaggi, che l'amministrazione Biden considera ancora "possibile".
L'obiettivo è ottenere un'intesa prima dell'inizio del Ramadan, il 10 marzo, per evitare che il mese di digiuno peggiori ulteriormente le condizioni della popolazione di Gaza. A quel punto ci sarebbe il tempo di annunciare la road map: il ritiro delle comunità di coloni (molte, se non tutte) dalla Cisgiordania, una capitale palestinese a Gerusalemme Est, la ricostruzione di Gaza, accordi di sicurezza e governance per i Territori nella loro ritrovata unità.
Per Israele, come contropartita, garanzie specifiche di sicurezza e una normalizzazione nei rapporti con Riad e altri Stati arabi. A questo schema lavorano gli Stati Uniti con Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita, Emirati e rappresentanti palestinesi. Tra le opzioni valutate da Washington c'è anche il riconoscimento anticipato di uno Stato palestinese. Mentre dai Paesi arabi filtra ottimismo sulla possibilità di riunire i gruppi palestinesi per istituire un governo di tecnocrati, piuttosto che di politici, che porti a nuove elezioni. E si discute anche se la leadership politica di Hamas possa avere un ruolo nella Gaza del dopoguerra.
L'incognita principale in questo complicato processo resta Israele, che il Post ha definito "l'elefante nella stanza". Perché il premier Netanyahu considera irricevibili le richieste di Hamas sugli ostaggi e soprattutto si oppone alla nascita di uno Stato palestinese. Nella convinzione, sostenuta dall'ultradestra del suo governo, che l'unica garanzia per la sicurezza sia quella di mantenere "il controllo di tutta l'area a ovest del Giordano".
L'Anp, tra l'altro, non viene considerato un interlocutore serio perché "deve ancora condannare il massacro del 7 ottobre", ha spiegato il portavoce del premier. Proprio Abu Mazen, parlando del piano arabo e americano, ha detto di aspettarsi "l'azione sul campo e non le parole" ed ha ribadito che l'Anp è pronta ad assumersi le proprie responsabilità a Gaza dopo la fine del conflitto. Eppure, secondo alcuni funzionari e analisti occidentali, sono proprio i due leader ad ostacolare una pace duratura. Sia Netanyahu che Abu Mazen "sono più interessati a mantenere i loro posti" che ad impegnarsi per "qualsiasi soluzione che trasformi" l'attuale quadro politico, è il parere espresso da Aaron David Miller, ex consigliere del Dipartimento di Stato Usa e coordinatore dei negoziati arabo-israeliani.
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