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Il Regno vota la svolta, il Labour teme solo l'affluenza

Anche Murdoch con Starmer, i Tory s'arrendono e riesumano Boris Johnson

Il leader Labour Keir Starmer e il premier Rishi Sunak

Redazione Ansa

Il Regno Unito è a 24 ore dalla svolta e a Downing Street già spuntano furgoni e impalcature, tracce dei preparativi della liturgia di un cambio della guardia fra inquilini di Number 10 raramente più scontato: quello fra il premier conservatore uscente Rishi Sunak e il lanciatissimo leader laburista Keir Starmer, che il voto di domani si appresa a sancire in numeri fragorosi secondo tutti i sondaggi.

Destino al quale gli stessi Tories appaiono di fatto rassegnati, slogan a parte, e su cui il Labour si limita giusto a proiettare un'ombra di scaramanzia: evocando il timore - marginale - di un qualche calo dell'affluenza dovuto all'assenza di suspense, che sulla carta potrebbe incidere sulle dimensioni d'una super maggioranza comunque pressoché certa.

L'ultimo chiodo nella bara del partito che fu di Winston Churchill o di Margaret Thatcher lo ha piantato, alla vigilia dell'apertura delle urne a 50 milioni di cittadini britannici aventi diritto al voto, il Sun. Giornale d'orientamento conservatore, brexiteer e populista, di proprietà dello squalo australiano Rupert Murdoch, che stavolta ha tradito la causa Tory unendo in extremis la sua voce al coro di endorsement in favore del 61enne Starmer: salutato come "il nuovo manager" di cui il Regno ha bisogno; e sdoganato per aver riportato il Labour al centro, dopo la parentesi della leadership di sinistra radicale di Jeremy Corbyn, all'unisono con gran parte della stampa d'establishment. In un contesto in cui il più letto dei tabloid isolani sale sul carro del vincitore annunciato laburista come aveva fatto in passato solo ai tempi della leadership di Tony Blair (ex amico personale di Murdoch, prima d'una storia di presunte corna).

Precedente richiamato a malincuore, a margine dell'ultimo giorno di comizi, pure dal ministro del Lavoro in carica Mel Stride, primo membro del gabinetto Sunak disposto a riconoscere esplicitamente la prospettiva di "una sconfitta a valanga senza precedenti", tale da garantire al Labour una maggioranza superiore al record di Blair del 1997. O addirittura a quella incassata a parte invertite dai conservatori - in coalizione con due alleati minori - nel lontanissimo 1931.

Paragoni forse tattici (tenuto conto che i 492 seggi di scarto del '31 non trovano minimamente riscontro oggi nei calcoli degli istituti demoscopici), avanzati per abbassare oltre misura l'asticella delle aspettative. O magari per spingere qualche elettore laburista a non affannarsi a votare, come sospetta sir Keir Starmer, incoraggiando la gente a non lasciarsi convincere "a restare a casa" se davvero vuole quel "cambiamento" a cui tanti s'aggrappano "dopo 14 anni di caos Tory".

 

Un'eredità logorante per il 44enne Sunak, fedele al suo ruolo nell'insistere fino all'ultimo secondo negli appelli a non considerare la partita già perduta. Ma incamminato a diventare il volto d'una debacle epocale: per colpe in parte riconducibili al suo partito (dagli scandali alla gestione della Brexit, alle divisioni interne, a certe scelte di politica economica o alle promesse fallite sull'immigrazione); in parte a circostanze esterne (crisi globali, pandemia di Covid, contraccolpi della guerra russo-ucraina e dell'escalation in Medio Oriente).

L'istituto YouGov, del resto, predice i Tories ad appena 102 seggi su 650 alla Camera dei Comuni, picco negativo in 190 anni: a distanza siderale - grazie anche all'effetto del sistema maggioritario secco del 'first past the post' - da un Labour dato a quota 431 deputati (Blair ne incassò al massino 418), sebbene accreditato a stento d'un 40% di voti. Mentre altre stime li fanno precipitare persino sotto i 100, obbligati a guardarsi a destra dei populisti di Reform UK di Nigel Farage a livello di consensi proporzionali; e al centro da un possibile avvicinamento, se non da un inedito sorpasso in termini di seggi e di leadership dell'opposizione parlamentare, dai Liberaldemocratici di Ed Davey.

Mentre sullo sfondo torna ad affacciarsi il controverso ma carismatico Boris Johnson. Riapparso a sorpresa in un comizio finale per infilare un piede nella porta del dopo elezioni. Oltre che per mettere in guardia la pancia dell'elettorato conservatore dal rischio di "una batosta con la mazza ferrata" e dalla tentazione di votare Farage e soci (definiti tout court "putinisti") a costo di far stravincere Starmer e compagni (bollati come "corbynisti" malgrado l'espulsione di Corbyn): cosa che consegnerebbe il Paese - ha tuonato BoJo in toni quasi trumpiani, da scontro totale - a un futuro "gravido di incubi". 

  

 

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