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'Quel 7 ottobre a Tel Aviv', il racconto del corrispondente

'Era impossibile crederlo, eppure stava succedendo di nuovo'

Israele sotto attacco, � guerra con Hamas

Redazione Ansa

 Il 7 ottobre ha cambiato la storia del Medio Oriente. Un fatto che nessuno di noi giornalisti all'alba di quel giorno, quando sono risuonate le prime sirene di allarme e i razzi lanciati da Hamas e dalla Jihad islamica hanno solcato il cielo di Tel Aviv, poteva comprendere in quel momento.

    Chiuso nel rifugio da dove trasmettevo all'ANSA le notizie, ho ripercorso mentalmente le guerre precedenti con Hamas per trovare un filo logico che mi aiutasse a capire. Ma annaspavo ed era la prima volta che mi accadeva nei miei quasi 13 anni di corrispondente da Israele. Come il resto del Paese, ero in stato di shock. Nelle telefonate concitate che scambiavo con il mio collega Aldo Baquis non trovavamo risposta alle nostre domande. Il silenzio della mente era accompagnato da quello nelle strade.

    Nelle pause degli allarmi, affacciandomi dal terrazzo, intravedevo solo qualche raro passante correre verso casa. La vibrante Tel Aviv si era oramai ripiegata su se stessa. Ancora sul terrazzo - colpevolmente ignaro del pericolo - ho visto la traiettoria dei razzi di Hamas e l'impatto della controaerea dell'Iron Dome. Lampi di luce, esplosioni ripetute, secche, temibili per i frammenti che potevano ricadere. Dal mare non arrivava più nessun aereo, come accadeva abitualmente. Israele era isolata.
    Di nuovo nel rifugio, ero travolto dagli sms dell'Idf sull'arrivo di altri razzi. Mi ripetevo che a Tel Aviv hai 90 secondi di tempo per trovare un rifugio sicuro. Io l'avevo in casa ed ero dunque un privilegiato. Ma nei kibbutz attorno alla Striscia i secondi erano solo 10: il lasso di tempo tra la vita e la morte. Attorno a metà mattinata di quel 7 ottobre il quadro della situazione si stava delineando. Ed era terribile: le milizie di Hamas e della Jihad islamica avevano superato la barriera di protezione al confine. Il numero delle vittime israeliane continuava a crescere. La frontiera più controllata al mondo era stata scavalcata in un battibaleno: parapendii per saltarla, ruspe e bulldozer per abbatterla come fa un ladro che sfonda con il camion la vetrina della gioielleria. Israele era impotente: il suo esercito, la sua intelligence - celebri in tutto il mondo - avevano fallito. Il governo di Benyamin Netanyahu taceva.

    Le tv testimoniavano uno scenario incredibile, senza paragone con le guerre del 2012, del 2014, del 2021. Quelle le avevo vissute e raccontate ma questa - avevo oramai capito - era un'altra cosa. Non era soltanto un problema di sostanza: per raccontare cosa stava succedendo quel 7 ottobre servivano parole nuove. Nelle ore del pomeriggio sono filtrate le prime notizie sugli ostaggi: prima pochi numeri, poi il loro moltiplicarsi.

    Qui e lì sui media cominciava a comparire anche il Festival musicale Nova: centinaia di giovani israeliani che vicino al kibbutz di Reim celebravano a suon di musica tecno la fine delle festività ebraiche. Uno dei primi video apparsi sui media mostrava un'auto di giovani israeliani del festival crivellata dai colpi con il guidatore che inutilmente cercava di sfuggire ai mitra di Hamas. Era impossibile da credere eppure era così. I kibbutz e il festival erano diventati il luogo di una carneficina, di un massacro, di un'immensa trappola per civili israeliani: uccisi, violentati, bruciati, rapiti e trascinati a forza a Gaza.
    Poi è arrivata la notte: Israele avrebbe rivissuto in quelle poche ore di sonno l'incubo - come è stato poi definito - del più grande pogrom anti ebraico a cielo aperto dai tempi della Shoah. 1.200 assassinati, oltre 200 ostaggi: donne, uomini, anziani, malati, bambini di pochi mesi, cadaveri. Tutti trascinati oltre confine. Dei rapiti, 100 sono ancora oggi in mano ad Hamas, la metà si pensa sia stata uccisa.

    Da quella notte - e fino ad agosto scorso - ho dormito nel rifugio. Il telefono acceso, il computer collegato, le chiamate di amici e conoscenti angosciati. Il giorno dopo nella riunione di redazione, il direttore mi ha chiesto quale fosse stato il momento peggiore. Ho risposto, trattenendo a stento l'emozione, che era quello delle prime immagini degli ostaggi portati via.


    Soprattutto di quelle di uno dei piccoli Bibas dai capelli rossi a cui i miliziani intimavano, fieri della loro impresa, di alzare il viso per mostrarlo alle tv del mondo. Non sono più tornati dalla Striscia. Ho visto, e riferito come cronista, quei kibbutz: le case sventrate, annerite dal fuoco, crivellate dai colpi, devastate e saccheggiate. Ho sentito i racconti dei sopravvissuti. Ho visto il dolore profondo delle donne israeliane stuprate. Il 7 ottobre, qualunque sia la fine della lunga guerra che ne è nata, ha cambiato per sempre Israele e la sua gente. Ed anche me.

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