Sui nuovi padroni della Siria gli occhi puntati del mondo, con la fiducia sospesa fra speranza e scetticismo. Esibendo nuovamente la volontà di normalizzare il disastrato Paese nel dopo-Assad, i ribelli vincitori di Hayat Tahrir al-Sham (Hts) hanno assicurato che il prossimo passo sarà lo scioglimento delle fazioni armate, la loro per prima, per integrarle tutte in un futuro esercito regolare.
Questo mentre è stato riaperto l'aeroporto di Damasco, da dove sono decollati i primi voli per e da Aleppo, ed è ripreso il traffico di camion con la Giordania attraverso il valico di Jaber-Nassib, riaperto da Amman. Il consiglio di sicurezza dell'Onu chiede un processo politico "inclusivo e guidato dai siriani", mentre la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, si dice pronta a "aprire una prospettiva nuova", invitando la nuova leadership siriana a "passare dalle parole ai fatti". Affrontando anche il tema dei rifugiati: "Hanno il diritto di tornare, questo deve essere volontario, sicuro e dignitoso".
Ma Israele è fra quelli che non si fidano e per ora resta guardingo: il premier Benyamin Netanyahu, che martedì ha visitato a sorpresa il versante siriano del monte Hermon, zona cuscinetto smilitarizzata rioccupata dopo oltre 40 anni, ha "ordinato" alle forze armate, l'Idf, di restare in quella striscia di terra, ufficialmente territorio siriano, almeno per tutto il 2025, nella speranza che entro un anno la situazione si sia stabilizzata.
Ieri, il leader in pectore della nuova Siria, l'ex jihadista Abu Mohammad al-Jolani, aveva rassicurato che il suo Paese non sarebbe stato utilizzato come base per lanciare attacchi a Israele, e oggi un funzionario dello Stato ebraico ha ammesso al Times of Israel che con l'Hts ci sono dei contatti, anche se non diretti ma per il tramite di "vari attori", e ha aperto uno squarcio sui punti tenuti sotto osservazione, come l'auspicio che i curdi restino "forti e indipendenti" e che la minoranza dei drusi non sia in pericolo.
Ed è proprio parlando a Latakia a rappresentanti della comunità drusa siriana - affine agli sciiti e finora protetta dal regime degli Assad, forte e politicamente ben rappresentata anche nel vicino Libano - che il capo militare di Hts, Murhaf Abu Qasra, ha dichiarato che "in ogni stato, le unità militari devono essere integrate all'interno dell'istituzione militare", aggiungendo che la sua stessa milizia sarà "la prima a prendere l'iniziativa" di sciogliersi, "nell'interesse generale del Paese". E ovviamente della Turchia, che per il tramite di Hts gioca da protagonista nello scacchiere mediorientale sulle macerie dell'impero geopolitico e militare dell'Iran e che non ha interesse che al-Jolani, ex comandante di al-Nusra, getti la veste da pecora per mostrare il lupo jihadista che era.
Sul fronte di Gaza, dopo il fervore di martedì sera per l'imminenza di un accordo fra Hamas e Israele su una tregua di due mesi e lo scambio di ostaggi e prigionieri, è intanto ricalato il silenzio: segno degli ultimi ostacoli ancora da rimuovere, anticipati già alla vigilia da alcuni osservatori.
Hamas, dice una fonte israeliana, "sta mostrando una certa flessibilità nei colloqui" e comprende che la tregua sarebbe comunque provvisoria e non metterebbe fine alla guerra. Hamas è forse cosciente che stavolta Israele è più decisa a stringere con la pressione sul collo dell'alleato Donald Trump, e che la palla è quindi nella metà campo della fazione palestinese.
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