(di Alessandro Logroscino)
LONDRA - L'effetto di un terremoto. L'intesa di compromesso sulla Brexit annunciata da Bruxelles e da Londra dopo due anni di apnea deflagra come una bomba sul governo Tory di Theresa May e sulla scena politica britannica: fra dimissioni, mozioni di sfiducia, polemiche, ansie, turbolenze sui mercati e sterlina a picco.
La giornata si apre con una nuova raffica di defezioni dall'esecutivo, dopo il via libera (non unanime) alla bozza d'accordo strappato ieri da May allo scoccare della quinta ora di consiglio dei ministri. A sbattere la porta, oltre a due sottosegretari e un paio di altri componenti junior della compagine, sono due ministri e brexiteers di spicco: Esther McVey, bellicosa titolare del Lavoro, e soprattutto Dominic Raab, l'uomo che sotto quell'intesa avrebbe dovuto mettere la firma in veste di responsabile del dicastero della Brexit e che invece si chiama fuori come il predecessore David Davis.
McVey parla di tradimento del mandato referendario del 2016.
Raab spiega di "non poter sostenere in buona coscienza" un testo che a suo dire, fra le righe delle sue 585 pagine di clausole, mette in pericolo "l'integrità territoriale" del Paese a causa di quel meccanismo di 'backstop' imposto almeno sulla carta dall'Ue "a tempo indeterminato" a tutela di un confine senza barriere fra Irlanda e Irlanda del Nord (ma non necessariamente fra l'Irlanda del Nord e il resto del Regno). Parole pesanti che sembrano segnare il destino del governo, mentre la sterlina cede vertiginosamente terreno su euro e dollaro dopo un'iniziale apertura positiva della Borsa sulla scia della reazione di sollievo della City di fronte agli annunci di un divorzio concordato pur che sia. E che tuttavia non schiantano May, pronta a sostituire con un grazie e un benservito i fuoriusciti, ultimi d'una schiera che in due anni ha toccato quota 20.
La premier si presenta nell'arena della Camera dei Comuni negli stessi minuti in cui al Comitato 1922, organismo di controllo delle procedure elettorali interne al Partito Conservatore, cominciano ad affluire le lettere favorevoli a un mozione di sfiducia contro la sua leadership: prima fra tutte quella del rampante Jacob Rees-Mogg, nuovo beniamino degli euroscettici più oltranzisti. Per avviare l'iter ne servono 48, poi, nel caso, si tratterà di andare alla conta fra i 318 deputati dell'intero gruppo. Conta che lady Theresa si dichiara d'altronde preparata ad "affrontare", se necessario.
Il messaggio recapitato al Parlamento, e più tardi ripetuto ai media in una conferenza stampa, è che lei di dimettersi non ha alcuna intenzione. La bozza d'intesa resta sul tavolo, fa sapere anche a beneficio di Bruxelles, dove i leader Ue sembrano mostrare qualche esitazione: con Donald Tusk che, a dispetto del vertice straordinario già convocato per il 25 per sancire il passo in avanti, torna a evocare anche ipotesi alternative di "no deal" o "no Brexit". Ipotesi che anche May cita, ma solo per esorcizzarle. Ribadendo il 'no' a ogni idea di un secondo referendum di fronte ai deputati eurofili più convinti; difendendo l'intesa raggiunta come "la migliore negoziabile" di fronte all'accusa del leader laburista Jeremy Corbyn di aver partorito "un enorme fallimento" e "il caos"; replicando ai falchi di casa sua di aver portato a casa un compromesso non del tutto soddisfacente, certo, su punti come il backstop, ma che nei suoi aspetti essenziali garantisce la Brexit, "il rispetto della volontà popolare" espressa due anni fa e apre le porte all'uscita della Gran Bretagna dall'Ue "il 29 marzo 2019".
Molti restano scettici. E ad oggi una maggioranza parlamentare non si vede affatto. Ma la premier è decisa ad andare a vedere l'eventuale bluff di chi l'avversa da fronti opposti. Il suo traguardo, conferma, è il voto di ratifica a Westminster, forse prima di Natale, quando il gioco sarà a carte scoperte. "La leadership - martella May - è fare le cose giuste nell'interesse nazionale, non le cose facili. Io ho ho fatto il mio dovere, aspetto che il Parlamento faccia il suo".