Proroga breve, a patto di riuscire finalmente a strappare - a un tiro di schioppo dal baratro - la problematica ratifica di Westminster sull'accordo di divorzio raggiunto a novembre. E' la pericolosa puntata secca, su un numero solo, che Theresa May e l'Ue piazzano alla vigilia del Consiglio europeo: estrema giocata alla roulette della Brexit. Una scommessa che minaccia peraltro di creare ingorghi sulla strada delle elezioni europee di fine maggio, con il rischio paradossale di dovervi far partecipare una Gran Bretagna in uscita. Ma soprattutto non offre vie di fuga chiare, nel caso di un nuovo flop, per evitare l'ombra che spaventa di più: quella di uno sbrigativo no deal innescato dalla forza d'inerzia.
La premier Tory, in ogni modo, si affida alle carte che le rimangono. Non senza attaccare con toni provocatori lo stesso Parlamento britannico che dovrebbe convincere, in un discorso televisivo serale alla nazione - seguito dalle subitanee reazioni oltraggiate di deputati di vari partiti - in cui esprime "grande rammarico personale" per aver dovuto invocare lo slittamento; ne attribuisce la colpa alla Camera dei Comuni; e si appella "al popolo" nell'auspicio che la Brexit sia attuata.
In una lettera al presidente Donald Tusk, l'estensione delle procedure d'uscita previste dall'articolo 50 del Trattato di Lisbona viene richiesta con uno spostamento dal 29 marzo a "non oltre il 30 giugno". Scelta che May giustifica già nel Question Time con accenti categorici e di recriminazione. Dice all'aula che "è tempo di attuare la volontà popolare, come il popolo merita", dichiarandosi "contraria" senza se e senza ma a un rinvio protratto nei mesi e definendo "inaccettabile" un ipotetico coinvolgimento britannico nel prossimo voto europeo "a tre anni dal referendum" pro Leave del 2016: "il più grande esercizio democratico nella storia" del Regno Unito. Rispondendo al grido "dimissioni" delle opposizioni, imputa quindi all'assemblea d'essersi "concessa fin troppo all'Europa", di aver bocciato non solo il suo accordo (due volte), ma pure le alternative di un secondo referendum o del piano B del leader laburista Jeremy Corbyn per una Brexit soft con permanenza nell'unione doganale. "Ora - alza la voce, liquidando alla stregua di una bestemmia contro la democrazia diretta ogni idea di revoca dell'articolo 50 - questa Camera deve affrontare le conseguenze delle sue decisioni": la strada offerta da lei o un orizzonte da cui "non può essere tolto dal tavolo il no deal".
Il duello con Corbyn è aspro. Il capo del Labour le rinfaccia d'essersi inchinata ai "brexiteer estremisti" del governo e della sua coalizione (beccandosi per tutta risposta l'accusa di "non rispettare il voto del 2016"); denuncia "l'incompetenza, i fallimenti e le intransigenze" di Downing Street; torna ad auspicare "un compromesso" sul suo piano B; evoca in caso contrario una nuova mozione di sfiducia per provare a far cadere la premier; annuncia di voler andare anche lui in segno di sfida a Bruxelles per incontrare il negoziatore Ue Michel Barnier. A Bruxelles, però, l'interlocutrice resta per ora inevitabilmente lady Theresa.
Tusk le offre una mezza sponda parlando di una proroga breve come d'una soluzione "possibile, ma condizionata a un voto positivo ai Comuni" entro la settimana prossima. Senza escludere un ulteriore summit straordinario prima del 29 marzo: potrebbe essere addirittura il giorno prima, il 28, è l'indicazione raccolta a Bruxelles. Certo c'è il nodo della data, come nota pure Juncker. Il 30 giugno potrebbe andar bene e tuttavia pone ostacoli legali rispetto alle elezioni: se Londra non fosse fuori per il 23 maggio, dovrebbe in teoria essere della partita. Un intoppo tecnico forse non insuperabile, a quanto si capisce più tardi; al pari del resto della crisi istituzionale creata sul fronte interno dal veto dello speaker della Camera, John Bercow, su un terzo voto di ratifica sull'accordo di novembre se l'esecutivo lo ripresentasse in una mozione sostanzialmente identica.
Il problema vero, su cui tutto è destinato a decidersi, resta semmai per la May rimettere insieme i cocci d'una maggioranza in pezzi, nella quale gli euroscettici più irriducibili, tipo Peter Bone, non esitano a bollare come "un tradimento" anche la più corta prospettiva di rinvio. E di ritrovare la stampella degli unionisti nordirlandesi anti-backstop del Dup o della pattuglia di laburisti eletti in collegi filo-Brexit. Pena il rischio di arrendersi al piano inclinato di un no deal accidentale, un epilogo che il tono di sfida indirizzato in serata verso il Parlamento sembra poter rendere sempre più probabile.
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