Mentre a Roma vanno in scena quelle che lui chiama "sceneggiate" sul Jobs act, Matteo Renzi incassa a Milano un coro unanime di plauso sulla riforma del lavoro.
Primo tra tutti quello di Angela Merkel, che parla di "passo importante" per l'Italia mentre i vertici dell'Ue - da Barroso a Van Rompuy e Schulz - le fanno eco, con il presidente della Commissione europea che loda un intervento "di grande impatto per l'economia italiana" e quello dell'europarlamento che definisce il governo di Roma "fantastico".
Ma anche se il premier non riesce - come forse avrebbe voluto - a incassare il via libera del Senato sul Jobs act proprio nelle ore in cui riunisce a Milano i leader europei per affrontare il dramma della disoccupazione, dietro le quinte dei lavori ancora una volta aleggia e domina il tema flessibilità.
Perché senza "crescita non c'é lavoro" e un'Europa che "fa le pulci" e "pensa solo ai vincoli è arida": il "dibattito austerity-crescita rischia di uccidere la prima vittima: il buon senso", rimarca il premier nel suo intervento. Con un occhio a Frau Angela dopo le battute e le frecciatine rimbalzate tra le cancellerie di Roma, Parigi e Berlino nei giorni scorsi. Renzi ribadisce che l'Italia rispetta e rispetterà i vincoli, togliendosi anche un sassolino dalla scarpa: il 3% è un vincolo di "reputation", di credibilità, ma è antico, pensato "più di 20 anni fa, in un altro mondo, quando non c'era neanche internet", dice. E annuncia che pur non violandolo, Roma alzerà l'asticella al limite, mettendo nella Legge di stabilità quel 2,9% che gli consentirà di avere oltre 11 miliardi di risorse a disposizione.
Hollande lo guarda. La Merkel segue le sue parole. Ma ribadisce la sua posizione di sempre: sono "fiduciosa che tutti rispetteranno" le loro responsabilità e i loro impegni. "Abbiamo un patto di stabilità e abbiamo preso la decisione, come Consiglio, di rispettarlo: in questo patto ci sono elementi di flessibilità", torna a ribadire la cancelliera con parole che ormai sembrano un refrain. Aprendo però, forse, un minimo spiraglio: "Siamo disposti a cambiare le procedure" perché sappiamo che ci sono Paesi che più di altri fanno fatica a rispettare il patto di stabilità e crescita", dice riferendosi ai fondi di cofinanziamento e parlando anche dell'uso dei 6 miliardi stanziati dall'Ue per la 'Garanzia Giovani'. Parole che Renzi coglie al volo. "Importanti" le frasi di "Angela", osserva il premier, che torna a citare tutti quegli esempi - dal pagamento del saldo dei debiti alla Pa al cofinanziamento dei fondi Ue - sui quali l'Italia rischia l'apertura una procedura di infrazione se non soddisfa ma che se realizza sfora il 3% del rapporto deficit-Pil: è evidente che "c'è una contraddizione...". E Renzi parla anche di quella 'reverse charge' che all'Italia servirebbe per combattere l'evasione fiscale e che però Bruxelles, sottolinea, non autorizza.
Hollande si tiene nell'ombra. Nella conferenza stampa a sei - oltre a lui, Renzi e Merkel ci sono anche Van Rompuy, Barroso e Schulz - rinvia al mittente le 'maldicenze' della vigilia, si limita a ricordare il dramma della disoccupazione a livelli "inaccettabili" e che la crescita "è la priorità di tutti". E ricorda che per alcuni Paesi servono le riforme, come per il suo e per l'Italia. L'inquilino dell'Eliseo accenna un timido "la Francia proverà a rispettare i suoi impegni", ricordando però che "ci sono Paesi che sono in una situazione che consente di stimolare la domanda interna", con riforme già avviate: il riferimento alla Germania è evidente.
Renzi lascia velocemente Milano - i tempi della discussione con i leader si sono allungati, facendo saltare anche la tradizionale 'foto di famiglia' - per tornare nella capitale.
Dove aspetta la fiducia al Jobs act: "Accadrà stanotte", annuncia, senza nascondere l'irritazione per la melina in scena a Palazzo Madama. "Possono contestarci, ma cambieremo il Paese", assicura pensando a quanto accaduto in Senato ma forse anche alle tute blu che stamattina hanno sfilato per Milano con il leader della Fiom Landini che ha minacciato di occupare le fabbriche. Perché, torna a dire il premier, le riforme vanno fatte. E se "questa Europa non ci basta, per essere credibili bisogna partire da casa nostra: l'Italia sarà credibile nella sua volontà di riforme solo se porterà a casa quelle che ha promesso da trent'anni e messo in cantiere negli ultimi sei mesi".
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