Politica

La scalata di Li Yonghong al Milan di Berlusconi

Le tappe dell'operazione fra fondi off shore, rinvii e caparre

Li Yonghong

Redazione Ansa

Il più ingente investimento nel calcio cinese è stato sostenuto con fondi offhsore, senza la benedizione di Pechino, sotto la guida di un businessman che in Cina è poco noto e ha chiuso l'affare fra ritardi, caparre a singhiozzo, con un prestito ponte che si sta rivelando difficile da rifinanziare. Li Yonghong, accreditato di un patrimonio da mezzo miliardo, ha infatti impiegato otto mesi a completare l'acquisto del Milan dalla Fininvest di Silvio Berlusconi per 740 milioni di euro, inclusi 220 mln di debiti.

Già durante la tormentata trattativa con Bee Taechaubol, vicino nel 2015 all'acquisto del 48% per 500 milioni, Berlusconi aveva negato si trattasse di un'operazione di rientro capitali: "Purtroppo all'estero possiedo una casa ma non un euro". Sfumato l'affare col thailandese, sono entrati in scena i cinesi. Il 5 agosto 2016 Fininvest (advisor Lazard, BNP Paribas e studio Chiomenti) annuncia il preliminare per la vendita con la società cinese Sino-Europe Sports (intestata a tale Chen Huashan), guidata da Li Yonghong (classe '69, nato ad Hainan secondo alcuni documenti, nella provincia di Guangodong secondo il curriculum, su cui circolano poche notizie, fra cui una multa della Borsa di Shanghai e i guai giudiziari di padre e fratello per una truffa) e dal fondo semi statale Haixia Capital.

    Dell'affare non fanno più parte gli advisor Galatioto e Gancikoff, che avevano condotto i negoziati, né l'investitore Sonny Wu: la cordata si è spezzata per differenze di vedute. Ses (assistita da Rothschild & Co. e dallo studio Gop) versa in pegno 100 milioni di euro, 15 subito e 85 un mese dopo. E' un investimento da oltre un miliardo, inclusi gli investimenti promessi. Gli altri soci annunciati nel consorzio si sfilano, probabilmente per il limite all'esportazione dei capitali dalla Cina. Li rinvia due volte il closing (previsto a fine 2016) con altre due caparre da 100 milioni. Una grazie a un prestito da Willy Shine International Holdings, società con base nelle Isole Vergini Britanniche. Per il fronte cinese sono soldi riconducibili a Ses, che il 3 marzo per mancanza di fondi fa slittare la firma versando a Fininvest 50 milioni in due trance, e altrettanti garantiti con strumenti finanziari.

Fra un rinvio e l'altro, l'avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini presenta in Procura un fascicolo che dimostrerebbe la provenienza lecita dei capitali. A ridosso del closing del 13 aprile, Ses crea un nuova controllata da Li, la Rossoneri Sport Investment Lux, in Lussemburgo, per avere capitali subito disponibili fuori dalla Cina. L'ad in pectore Marco Fassone e l'avvocato Riccardo Agostinelli sbloccano l'ultimo stallo con un prestito ponte del fondo statunitense Elliott, 303 milioni che Li si impegna a restituire entro ottobre 2018: 180 con interessi all'11.5% alla Rossoneri per completare l'acquisizione, il resto (al 7.7%) al Milan per i primi investimenti, attraverso due bond collocati alla Borsa di Vienna e sottoscritti da Elliott.

Il 27 giugno, col certificato antimafia della Prefettura, la Lega completa la raccolta del dossier inviandolo alla Federcalcio in base alle norme sulla verifica di onorabilità e solidità della proprietà. A novembre i 5 Stelle chiedono in Parlamento lumi sull'affare, poco dopo il New York Times getta ombre su Li, rivelando che il suo principale asset, un giacimento di fosforo, ha cambiato quattro proprietari negli ultimi due anni, due volte gratis. L'inchiesta non aiuta il Milan nell'esame davanti alla Uefa, che a metà dicembre respinge il Voluntary Agreement, aprendo la strada al Settlement Agreement, con le relative sanzioni per i debiti dell'ultimo triennio. Appuntamento in primavera, quando il Milan e Li contano di rifinanziare il debito.  

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