"Mi sono dimesso, come annunciato, nelle mani della presidente del Consiglio e la ringrazio dell'attenzione che mi ha riservato". Vittorio Sgarbi, dopo due settimane di un estenuante tira e molla, getta la spugna e lascia la poltrona di sottosegretario, come auspicato da Giorgia Meloni. Si smonta così la lunga telenovela sulla vicenda, anche se resta da vedere se farà il ricorso al Tar come aveva promesso poco meno di una settimana fa quando annunciava: "La mia agonia sarà lunga".
Una presa di posizione che aveva lasciato nel limbo, per settimane, la mozione delle opposizioni sulla sua rimozione. Ma anche le decisioni del governo. Importante, sicuramente, è stata la delibera dell'Antitrust, resa nota venerdì scorso con il conseguente, e tanto atteso, primo annuncio delle dimissioni.
Poi ribaltato all'improvviso dall'eclettico esponente politico che di fatto aveva preso tempo in attesa del voto della mozione, alla fine calendarizzata per il 15 febbraio, e delle possibili contromisure della premier, d'accordo con il ministro Sangiuliano, sulla possibile revoca delle deleghe all'indisciplinato esponente del ministero della Cultura.
Il dispositivo dell'Authority che inchiodava Sgarbi alle sue responsabilità, come ha commentato qualcuno anche nel centrodestra, si può riassumere in questi termini: "Ha esercitato attività professionali in veste di critico d'arte, in materie connesse con la carica di governo, come specificate in motivazione, a favore di soggetti pubblici e privati", in violazione della Legge Frattini sul conflitto di interesse".
Tanto da far chiedere comunque al Pd l'intervento del ministro Sangiuliano in Parlamento per chiarire tutta la vicenda. La maggioranza ha sempre tenuto un basso profilo nel tentativo di smorzare le polemiche "E' una sua scelta", aveva detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Mentre Gennaro Sangiuliano si trincerava nel più rigoroso silenzio, almeno in pubblico.