L'ultimo vertice dei 27 prima delle Europee, per Giorgia Meloni, è anche il primo dove più densa si fa l'ombra di Mario Draghi. Il discorso di La Hulpe, pronunciato dall'ex presidente della Bce martedì scorso, ha intensificato i rumors che lo vorrebbero alla testa dell'Europa, alla Commissione o come successore di Charles Michel. Un'ipotesi che, nella maggioranza di governo, rischia di essere esplosiva anche per la campagna elettorale che sta per cominciare.
Un'ipotesi di fronte alla quale la leader di Fdi sceglie di tenersi per ora a distanza. "Sono contenta che si parli di un italiano ma il dibattito su Draghi è filosofia. Sono i cittadini che decidono", sottolinea ai cronisti al termine del vertice.
Ma è lei stessa, in fondo, a dare un colore politico al punto stampa che fa seguito alla riunione. Dopo aver raccontato dell'ennesimo scontro tra i 27 consumatosi all'Europa Building, questa volta sull'unione dei capitali, Meloni osserva come la riunione di aprile sia l'ultima prima del voto. "Spero che quando ci incontreremo saremo di fronte ad un'Europa diversa", scandisce la premier. Cambiamento: la campagna elettorale della leader di Fdi, pressata da Matteo Salvini, pungolata in Europa da Marine Le Pen e guardata con crescente attenzione dalle destre in ascesa, non potrà che essere legata a questo concetto.
E forse non a caso, più che soffermarsi sull'autorevolezza dell'ex premier, ai cronisti sottolinea un altro aspetto: "quello che mi interessa è che sia Draghi che Enrico Letta, che sono considerati due europeisti, ci dicano che l'Europa va cambiata".
Che Draghi sia un nome scomodo per il disegno elettorale e per gli equilibri di maggioranza dei partiti al governo è pressoché tacito. Lo testimoniano le parole di Matteo Salvini, secondo cui "la Lega ha già fatto i suoi sacrifici con Draghi e l'abbiamo anche scontata". O quelle del capogruppo di Fi al Senato Maurizio Gasparri che, pur stimando l'ex governatore sostiene che i vertici Ue vadano "a chi ha più voti". Eppure, al dì là delle posizioni in campo, un certo establishment politico, economico e istituzionale, in Italia e in Europa, si muove nella direzione che vedrebbe il "formidabile" - definizione di Emmanuel Macron - ex premier italiano in uno dei top jobs comunitari. Nulla si muoverà prima del 9 giugno e, come spiega una fonte qualificata europea, a prevalere per ora è la cautela.
Ma, subito dopo il voto, sarà tutta una questione di timing. Con un primo appuntamento da cerchiare col rosso: la cena dei leader del 17 giugno. E nessuno dei grandi d'Europa vorrà subire una scelta degli altri, soprattutto se si tratta di Meloni e dell'opzione Draghi.
Al momento la candidata favorita resta Ursula von der Leyen, proposta da quel Partito popolare che si avvia a vincere le Europee. Meloni vede la presidente della Commissione uscente a margine del vertice Ue e si focalizza sui temi che più hanno unito le due leader: la migrazione, il piano Mattei e la necessità di aumentare i rimpatri. L'asse tra Meloni e von der Leyen è destinato a reggere ancora un po' ma tutto potrebbe cambiare dopo le elezioni. Su debito comune, approvvigionamento energetico Green Deal, Meloni vuole un cambio di rotta. Ai cronisti, intanto, spiega che è sbagliato raccontare ai media stranieri un Paese basandosi su "invenzioni". Sul tema della par condicio, così come su quello del carcere dei giornalisti o sull'acquisto dell'Agi da parte di Angelucci, la presidente del Consiglio smentisce quelle che chiama "una grande fake news". Nega qualsiasi "deriva" sul controllo dei media, sostiene che il suo partito abbia proposto di togliere e non introdurre il carcere ai cronisti. E anche sull'aborto, che ha visto Roma e Madrid ai ferri corti nelle ore scorse, Meloni parla di falsità.
"E' la sinistra che vuole cambiare la 194, non noi. Noi vogliamo garantire solo scelte libere", sono le sue parole. Sulla politica estera, infine, si mostra pienamente in linea con l'Europa. Assicura che sarà "fatto ogni sforzo" per fornire una difesa aerea adeguata a Kiev e si mostra "soddisfatta" per l'inserimento nelle conclusioni del vertice del dossier libanese, particolarmente caro a Palazzo Chigi.