(di Giorgio Gosetti) (ANSA) - ROMA, 18 GEN - Lo hanno
definito l'ultimo uomo del Rinascimento, l'autentico surrealista
americano, il regista più misterioso di Hollywood. In realtà
nessuna definizione si adatta fino in fondo al carattere e al
talento di David Keith Lynch, nato a Missoula nel Montana il 20
gennaio 1946, che mercoledì compie 75 anni.
«Era soltanto uno dei miei quadri - ricorda-. C'era una figura
che occupava il centro della tela. Mentre stavo osservando la
figura nel quadro ho avvertito un leggero spostamento d'aria e
ho colto un piccolo movimento. E ho desiderato che il quadro
fosse realmente in grado di muoversi, almeno per un po'». Da qui
comincia per lui un'avventura ancora oggi avvolta nel mistero:
sbarcato a Los Angeles, nel 1971, usa una borsa di studio
dell'American Film Institute per cominciare le riprese del suo
primo lungometraggio. I soldi sono pochi e ci vorranno sei anni
perché "Eraserhead" veda la luce. Il risultato viene giudicato
impossibile da distribuire ma, grazie all'aiuto di alcuni amici,
Lynch riesce a proiettarlo in qualche sala come spettacolo di
mezzanotte e, con la pellicola in valigia, sbarca in Europa al
festival del fantastico di Avoriaz. Spilungone, con l'aria
smarrita dell'americano di provincia, senza nemmeno un giubbotto
per difendersi dal freddo sulle Alpi francesi, si aggira tra
cinefili e star con l'aria di un alieno sbarcato sulla terra. La
proiezione del film, un incubo surrealista a occhi aperti,
girato in bianco&nero e dominato dalla terrificante incarnazione
di un feto d'incerta origine (Lynch non rivelerà mai di cosa si
tratti e lo seppellirà in gran segreto organizzando una veglia
funebre con la troupe), si traduce in un autentico evento.
"Eraserhead" vince il premio, diventa un oggetto di culto,
suscita mille interpretazioni e per dieci anni sarà proiettato a
notte alta in moltissime sale d'essai americane. Il regista si
rifiuterà sempre di spiegare il senso delle immagini subliminali
e disturbanti che attraversano la pellicola facendo suo un
mantra poi rispettato anche in futuro ("i film parlano da soli,
inutile sovrapporre intenzioni e spiegazioni") tanto che nessuno
dei suoi lavori distribuiti in home video contiene interviste
esplicative. Del resto tutta la sua arte è un continuo travaso
di esperienze visuali, meditazione, viaggi nell'inconscio e
nelle ossessioni giovanili, come a voler ricreare il tessuto
emotivo di una generazione e dell'America profonda. Non a caso i
suoi maggiori successi, da "Velluto blu" a "I segreti di Twin
Peaks" sono ambientati in piccoli paesini isolati, tra il freddo
delle montagne e le grandi pianure del Nord Ovest. La svolta
nella carriera da cineasta di David Lynch viene col secondo
film, "Elephant Man" (1980) per il quale, grazie all'impegno di
amici e collaboratori con cui ha formato una sorta di "famiglia
artistica" che durerà nel tempo, ottiene l'attenzione di Mel
Brooks. Il regista di "Frankenstein Junior", dopo visto il primo
film dell'outsider di Philadelphia, accetta di produrlo: in
cambio otterrà ben nove candidature all'Oscar per un film in
bianco&nero ambientato nella Londra vittoriana e consegnerà a
Hollywood la nuova star del momento. Per paradosso l'occasione
della vita diventerà il più grande fallimento di Lynch. Dino De
Laurentiis gli consegna il progetto della vita: l'adattamento di
una saga visionaria come "Dune" di Frank Herbert. Alle prese con
un budget da blockbuster (45 milioni di dollari del 1984) e la
pressione del tamtam mediatico, il regista si smarrisce e non
sarà apprezzato né dal pubblico né dalla critica, disconoscendo
i tagli imposti da De Laurentiis e anche la versione più lunga
approntata per la tv. Sull'orlo di una profonda depressione e
pronto a tornare ai suoi vecchi amori (la pittura, ma anche la
musica che lo vedrà emergere come compositore e voce solista),
David Lynch porta a De Laurentiis un nuovo copione, quasi a
risarcimento del flop precedente. In una cornice nostalgica da
noir classico, ha messo in "Velluto blu" (1986) tutte le sue
ossessioni, i fantasmi dei paesini di montagna in cui è
cresciuto, i suoni dell'America anni '50, la fascinazione del
male e delle misteriose dark ladies. Sceglie attori poco costosi
come il dimenticato Dennis Hopper, la sua icona Isabella
Rossellini, il giovane Kyle McLachlan scoperto in "Dune";
incontra il musicista Angelo Badalamenti che farà la sua
fortuna, ripaga la fiducia del produttore con un vero trionfo
critico e la seconda (di tre) nomination all'Oscar come miglior
regista. Tre anni dopo il produttore Mark Frost che gli apre le
porte della tv con la serie per l'ABC "I segreti di Twin Peaks":
gli americani non avevano mai visto nulla di simile e la serie
diventerà il punto di riferimento di tutta la fiction di fine
secolo, nonché l'ossessione del regista che tornerà ai suoi
personaggi in "Fuoco cammina con me" (1992) e nel nuovo "Twin
Peaks" del 2017. Nel frattempo ha vinto la Palma d'oro a Cannes
con "Cuore selvaggio", realizzato i più misterios noir degli
anni '90 ("Strade perdute" e "Mulholland Drive"), dato sfogo
alla sua fantasia surreale con "Inland Empire", vinto un Leone
d'oro a Venezia nel 2006. L'Oscar alla carriera del 2019 mette
un punto fermo al suo talento. Ma fuori dal cinema si è intanto
imposto come un artista di primo piano con mostre in tutto il
mondo (celebre la collaborazione con Loubotin per le
installazioni di "Fetish"), dischi e video sperimentali, degni
di un genio senza schemi né limiti. «Le idee - dice di sé
-arrivano nei modi più impensati, basta tenere gli occhi
aperti». (ANSA).
XGO-MA/ (ANSA).