"Era stata usata una quantità di esplosivo enorme per questa impresa criminale, tanto che la parola attentatuni, di solito riservata a Capaci, potrebbe applicarsi anche in questo caso". Così il magistrato Gian Carlo Caselli durante la cerimonia di intitolazione del palazzo di giustizia di Aosta a Giovanni Selis, pretore che, esattamente 40 anni fa, scampò al primo attentato in Italia a un magistrato.
Il 13 dicembre nel 1982 l'accensione della Fiat 500 di Selis, in via Monte Vodice ad Aosta, scatenò l'esplosione di un ordigno posizionato nel vano motore. Nell'attentato, Selis riportò solo lievi ferite a un occhio e il veicolo andò distrutto. Morì suicida, a 50 anni, nel maggio del 1987, nella sua casa alle porte del capoluogo valdostano.
Caselli ("Selis ed io siamo praticamente coetanei, siamo entrati in magistratura nel '67 e nel '68 e abbiamo fatto il tirocinio insieme a Torino, nella stessa stanza di Guariniello") ha spiegato che "quattro anni dopo la morte di Selis nell'indagine Lenzuolo affiora un possibile legame che porta alle cosche locali". Anche per questo la "vicenda Selis è un monito per tutti noi impegnati a combattere il contropotere criminale e non accettiamo di conviverci".
"Sia lui sia mio padre indagavano sul riciclaggio di denaro al casinò di Saint-Vincent prima di subire gli attentati", ha scritto Paola Caccia, figlia del procuratore Bruno ucciso dalla 'ndrangheta nel 1983, in un messaggio letto dall'avvocato Fabio Repici.
“Ha esercitato il proprio dovere rischiando la vita, altri l’hanno persa facendolo”. Così Edoardo Barelli Innocenti, presidente della Corte d’appello di Torino, durante la cerimonia di intitolazione del palazzo di giustizia di Aosta a Giovanni Selis. “La criminalità organizzata - ha aggiunto - prospera se c’è silenzio”. "Bertolt Brecht - ha aggiunto Barelli Innocenti - diceva ‘Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi ‘, invece l’Italia ha bisogno di figure” di questo tipo, “che non sono solo magistrati, ma tutti coloro che hanno fatto il proprio dovere contro il terrorismo e la criminalità organizzata. E’ importante che il loro esempio sia sempre ricordato, perché è un monito per noi e le future generazioni”. “Anche la memoria di Selis è un invito a non dimenticare, un monito ad assumersi responsabilità di quella memoria. È morto per le stesse ragioni per cui è vissuto”, ha detto Don Luigi Ciotti nel messaggio letto da Donatella Corti, referente regionale di Libera Valle d’Aosta, da cui è partita l’iniziativa dell’intitolazione. “Si è battuto contro la devastazione ambientale. Da amante delle montagne mi piace ricordare la sua volontà di farsi seppellire a Rhemes-Notre-Dames”.
“L’intitolazione è giusta e generosa. Ha rappresentato la giustizia ai massimi livelli. Era sardo ma ambientato bene, un valdostano d’adozione”, ha detto il presidente del tribunale di Aosta, Eugenio Gramola. “Si potrebbe definire - ha aggiunto Gramola - un pretore d’assalto. Indagò su criminalità organizzata, lottizzazione abusiva, fatti molto gravi, il modo migliore per farsi dei nemici”. “Penso - ha riferito Daniele Parini, avvocato aostano che fu amico di Selis - che avesse iniziato a temere l’attentato. Portava con sé una pistola e quando, durante un’uscita in bici, gli scoppiò una ruota, si spaventò e si buttò a terra. ‘A volte le indagini possono disturbare persone pericolose’, mi disse”. Una denuncia per diffamazione, legata alla presunta diffusione di nomi dei suoi potenziali attentatori che gli erano stati riferiti via telefono in modo anonimo - ha spiegato oggi la moglie, Sara Polimento Selis - lo costrinse al trasferimento a Roma, in un ufficio ministeriale. “Fu prosciolto – ha ricordato - e tornò ad Aosta. Subito stava bene, poi iniziò la depressione. Aveva ricevuto minacce anonime via telefono: ‘Questa volta non sbaglieremo”. Domenico Palmas, presidente dell’ordine degli avvocati di Aosta, conobbe Selis: “Era molto attento a perseguire quei reati che oggi consideriamo normali ma che all’epoca destavano scandalo, come le materie dell’edilizia e dell’ambiente. Inchieste che erano percepite, al contrario di quelle sulla criminalità organizzata. Forse la vicenda dell’attentato era stata banalizzata nel nostro contesto, con conseguenze personali sul modo in cui l’aveva percepita”.
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