Veneto

Diritti, 'in Lubo la storia di un'ingiustizia monito per oggi'

L'indifferenza, l'abitudine alla guerra sono mali contemporanei

Redazione Ansa

(ANSA) - VENEZIA, 07 SET - Un regista sensibile Giorgio Diritti a Venezia 80 porta in concorso Lubo, liberamente ispirato al romanzo Il seminatore di Mario Cavatore (Einaudi), la storia di un nomade, uno Jenisch nella Svizzera degli anni '30.
    "È un povero cristo nel senso buono del termine, che fa l'artista di strada e che nella vita si trova a subire una cosa più grande di lui, una grande ingiustizia: vedere che i propri figli, mentre lui deve fare il militare nell'esercito elvetico che si prepara a difendere i confini dal rischio di un'invasione tedesca, vengano portati via solo perchè è un nomade, non ha una residenza stanziale. Il suo modo di vivere diverso - dice all'ANSA Diritti - diventa una discriminante che poi scatena quello che diventerà una catena del male di cui parte è ma che vorrebbe e potrebbe ribaltare credendo nella possibilità di rifarsi una vita, nell'amore, nella giustizia". Questa storia accade in Svizzera, negli anni '30 dove fino agli anni '70 per iniziativa del programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada di fatto deportava sradicava i figli dei nomadi affidandoli ad altre famiglie o al collegio, "purchè non vivessero per strada strappandoli alle famiglie, cosa che è una violenza unica. Un vizio dell'umanità diffuso", spiega. Il tema dell'ingiustizia è in Lubo (in sala dal 9 novembre con 01) e in molti altri film di Venezia 80. "C'è la sensazione che la società si impantani sempre sulle stesse cose e che queste stesse cose rischiano di portare di nuovo a conflitti, a guerre ecc. la scommessa triste oggi, e che mi sembra abbastanza persa, è che negli anni '70 ci faceva sperare in un mondo migliore. Oggi c'è la sensazione che semmai c'è una rassegnazione quasi che la negatività, il male, l'indifferenza verso l'altro siano da accettare. Penso - spiega - anche alla guerra in Ucraina dopo il periodo di grande empatia e commozione per le immagini strazianti che ci arrivavano, adesso quasi c'è un'abitudine. Ed è secondo me il momento più drammatico: abituarsi alla guerra, vuol dire accettare anche la discriminazione nei confronti di qualcuno che un giorno possiamo essere noi". (ANSA).
   

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