Che la sostenibilità non debba riguardare solo l’ambiente, ma anche le condizioni socioeconomiche dell’umanità, non è un concetto nuovo. Lo si può già trovare nel rapporto Mit – Club di Roma del 1972 e nel rapporto Brundtland del 1987. Tuttavia, questo principio assume piena rilevanza con l’Agenda 2030: dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile, almeno una decina (ma anche di più se guardiamo ai target specifici contenuti negli Obiettivi) riguarda la sostenibilità sociale.
Negli ultimi tempi, gli aspetti ambientali hanno però ripreso la prevalenza nell’attenzione dell’opinione pubblica. Si tratta di un effetto pienamente comprensibile, perché le variazioni climatiche cominciano a manifestarsi con molta evidenza e la Cop 26 di Glasgow, con il suo bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, ha avuto la massima attenzione da parte dei media. Tuttavia, non esiste sostenibilità se non si assumono impegni su povertà, fame e disuguaglianze. Per capirlo, riflettendo sul concetto di “giusta transizione”, si possono riportare le dichiarazioni del ministro dell’Ambiente di Papua Nuova Guinea Wera Mori a Luigi Ippolito del Corriere della sera:
Noi abbiamo aderito al bando della deforestazione entro il 2030: ma cosa ci guadagniamo? Per noi è un’industria da un miliardo l’anno: qualcuno deve pagare. Sono pronto a bandire il taglio delle foreste domani, se qualcuno viene e ci dà un miliardo di dollari l’anno. Perché dobbiamo fare noi sacrifici quando il mondo sviluppato è avventato? Noi facciamo la nostra parte, ma anche voi dovete fare la vostra: voi avete commesso molti peccati.
Mori denuncia che Papua sta già subendo pesantemente gli effetti del cambiamento climatico.
Per le nazioni sviluppate il dibattito sul cambiamento climatico è spesso un esercizio accademico... ma noi dobbiamo farvi fronte. Il livello del mare si alza e sommerge le nostre isole, le acque salate si infiltrano nel suolo e non si possono più coltivare i campi.
La sua nazione può salvarsi solo con un accelerato impegno globale sulla mitigazione dell’aumento di temperatura, oltre che con aiuti per l’adattamento: tutte misure ancora molto vaghe. Invece, per ora si chiede a Papua Nuova Guinea, in nome di un beneficio futuro, di rinunciare a una industria importante per la produzione di ricchezza del Paese. Come osserva Grammenos Mastrojeni, vicesegretario generale per l’Energia e l’azione climatica dell’Unione del Mediterraneo, su Changes, il magazine del gruppo Unipol,
Certe scelte di diminuzione delle emissioni sembrerebbero ottimali, ma implicherebbero il crollo di alcuni settori o l'impoverimento di intere comunità, col risultato che queste entrerebbero in stato di disorganizzazione e conflitto, ovvero dinamiche che alla fine produrrebbero molte più emissioni di quante se ne sono risparmiate.
La complessità sociale della “giusta transizione” deve dunque essere al centro della nostra attenzione, ma il cambiamento climatico è comunque solo una delle cause della gravissima situazione di molte popolazioni, a cui certamente la pandemia ha contribuito. Quello che sta avvenendo al confine tra Bielorussia e Polonia, dove il dittatore di Minsk Alexander Lukashenko fa affluire migliaia di disperati dal Medio oriente per premere sull’Europa, è un segnale di una situazione che nessun Paese affronta con una visione di medio e lungo termine.
Le migrazioni continueranno a crescere. Un’inchiesta dell’Economist (“African odyssey”) ci rivela che ci sono ormai 28 milioni di abitanti dell’Africa subsahariana che vivono all’estero, ma di questi solo il 18% vive in Europa, dove gli stipendi sono in media undici volte più elevati che in Africa, ma dove è sempre più difficile e pericoloso arrivare. Il 70% vive in un altro Paese africano. Nel continente ci sono 6 milioni di rifugiati fuggiti da un Paese all’altro e altri 18,5 che hanno lasciato le loro case per guerre e violenze, ma sono rimasti all’interno dello stesso Stato. La molla principale delle migrazioni è però la ricerca di un maggiore benessere.
Il cambiamento climatico non ha ancora stimolato grandi movimenti di popolazione ma potrebbe avvenire in futuro. Vaste estensioni dell’Africa diventeranno meno ospitali. Uno studio in Burkina Faso ha accertato che a causa della siccità le migrazioni possono anche diminuire (perché emigrare richiede una certa disponibilità economica, N.d.r.) Ma secondo la Banca mondiale entro il 2050 oltre 50 milioni di persone dell’Africa subsahariana potrebbero spostarsi a causa del clima.
In Italia siamo abbastanza attenti alla sostenibilità sociale? Che si debba fare più attenzione alla povertà lo ha ribadito Linda Laura Sabbadini sulla Stampa:
La povertà assoluta nel nostro Paese è raddoppiata dal 2012 e triplicata tra i minori. I minori sono il segmento di popolazione più in povertà assoluta e sono 1 milione 300 mila. Fanno parte di famiglie numerose al Sud, ma anche al Nord ce ne sono molti che appartengono a famiglie di migranti, o fanno parte di famiglie operaie con un solo reddito. L’introduzione di un correttivo che dia più peso ai minori è molto giusta. Tutte le forze politiche dovrebbero accordarsi su questo. Più un minore resta in povertà più il suo destino sarà segnato, perché non potrà sfruttare le opportunità degli altri bambini.
Ricordiamo che l’impegno assunto dall’Italia nel 2015 sottoscrivendo l’Agenda dell’Onu è di dimezzare entro il 2030 il numero delle persone in povertà assoluta che invece, come ricorda Sabbadini, sta aumentando. Il reddito di cittadinanza è in parte servito a porre un argine contro la povertà e le proposte della Commissione scientifica presieduta dalla sociologa Chiara Saraceno, incaricata dal governo di fare il punto su questo strumento, servirebbero certamente a migliorarne l’efficacia, soprattutto per la tutela dei minori e delle famiglie numerose. Le misure in discussione nella Legge di bilancio recepiscono queste proposte e le preoccupazioni sul diffondersi della povertà? Soltanto in parte, purtroppo, perché sembra prevalere la (giusta) preoccupazione di evitare le truffe rispetto a quella, almeno altrettanto importante, di tutelare i più fragili. Come conclude Saraceno in un suo articolo, anche lei sulla Stampa:
Si può essere più o meno d'accordo con le proposte del comitato scientifico. Ma va dato atto che sono basate su una analisi dei dati. Le narrazioni più o meno fantasiose, le visioni stereotipiche dei beneficiari, così come la difesa ad oltranza di norme e posizioni che si sono rivelate molto problematiche sono un'altra cosa. Sarebbe opportuno che anche in questo campo le decisioni politiche si bastassero sulle evidenze empiriche e la ricerca rigorosa.
Le problematiche di sostenibilità sociale non riguardano solo le politiche, ma anche le imprese. Su Repubblica, Mario Calderini, docente presso la School of management del Politecnico di Milano, esamina criticamente l’effettiva attuazione dei criteri Esg (Environment, social, governance) che dovrebbero caratterizzare il nuovo shareholder capitalism, attento a tutti i portatori d’interesse e non solo ai profitti.
Se leggiamo il problema della cosiddetta transizione giusta dentro il quadro definito dagli Esg, vediamo che quella grammatica è fatta da una E (di ambientale) molto grande, rispetto a una S (di sociale) sproporzionatamente piccola e terribilmente mal misurata. Le ragioni sono facilmente comprensibili: la E è più facile da misurare quantitativamente ed è relativamente poco rivale agli obiettivi di profitto e rendimento e per questo molto meno sgradita ai grandi operatori finanziari e alle imprese. La S di sociale è invece complessa da misurare e spesso direttamente conflittuale con gli obiettivi di profitto. Per questo, i mercati finanziari trovano conveniente vestire di verde i propri propositi di sostenibilità, sbarazzandosi di tutto ciò che ha a che fare con disuguaglianze, esclusione e povertà. Una strategia esplicita che si è sviluppata in due fasi, prima tentando di far sparire la S dalla narrativa e dalle metriche di sostenibilità, poi cercando di misurare la S nel modo più innocuo possibile: riferendosi a obiettivi di livello talmente alto (l'adesione alla dichiarazione dei diritti universali dell'uomo) o talmente piccoli (la palestra per i dipendenti in azienda) da essere in entrambi i casi irrilevanti e non conflittuali rispetto alle strategie di profitto.
Infine, una domanda: c’è un rapporto tra i nostri consumi individuali e la sostenibilità sociale? Abbiamo sempre pensato che la domanda per consumi sia il motore dell’economia, ma si comincia a riflettere sul fatto che il consumismo, in quanto eccesso di uso di beni e servizi non necessari, incide sulle risorse del Pianeta e in ultima analisi va a danneggiare i più deboli. Ne è convinto il presidente cinese Xi Jinping, che ha lanciato la campagna per una “prosperità comune” entro il 2050: una maggiore condivisione della ricchezza che smussi le punte dei consumi eccessivi. Per ora tuttavia non ha avuto molto successo. Il Singles’ day, che si festeggia in Cina ogni 11 novembre (una data fatta da quattro “uno”) ha visto volumi di acquisti paragonabili ai Black friday dell’Occidente.
di Donato Speroni
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