di Stefania De Francesco
E' uno scenario in chiaro-scuro e molto complesso quello dei Paesi che trattano per raggiungere un accordo sul clima. In grandi linee si possono dividere in tre blocchi: paesi industrializzati, paesi in via di sviluppo e paesi emergenti. Ma a differenza dei tempi del protocollo di Kyoto nel 1997, l'economia e la politica sono cambiate.
Nel rush finale che si sta compiendo a Parigi verso un patto con l'obiettivo di contenere l'aumento della temperatura media globale fra 1,5 e 2 gradi ciascuno va per la propria strada con indicazioni diverse sul contenimento dei gas serra. Seguendo non solo logiche ambientaliste.
Fra i grandi inquinatori, gli Stati Uniti con Obama per la prima volta non sollevano problemi, anzi, vogliono trainare i negoziati. Ci sono invece posizioni diverse fra i Paesi emergenti del gruppo Basic (Brasile, Sud Africa, India e Cina) mentre fanno vero blocco i Paesi del Cvf (Climate vulnerable Forum), quelli più a rischio a causa dei cambiamenti climatici che temono di 'affogare', letteralmente, sommersi dall'innalzamento degli oceani. La Russia per la prima volta sembra non mettersi di traverso, alle prese piuttosto con questioni internazionali, mentre chi questa volta potrebbe vestire i panni del 'guastatore' possono essere i paesi che producono petrolio, in particolare Arabia Saudita e Venezuela.
USA - Obama vuole guidare il cambiamento, ammettendo il ruolo degli Stati Uniti nell'aver creato il problema. Conta sul fatto che l'accordo quadro sarà un 'executive agreement', cioè un accordo in applicazione della Convenzione quadro delle nazioni Unite sul clima di Rio del 1992, che fu un trattato internazionale. Essendo stato quest'ultimo già sottoscritto dal Senato americano, per il 'Paris agreement' non occorrerebbe il voto del Senato (che sarebbe negativo) ma solo la ratifica di Obama.
BASIC - Brasile e Sud Africa sono alle prese con problemi interni rispettivamente di ordine politico ed economico e vedono questa occasione per rilanciare la propria economia puntando su aiuti da parte dei Paesi industrializzati. Sulle emissioni di CO2, invece, Cina e India hanno posizioni diverse. La Cina, primo grande inquinatore e alle prese con livelli record di smog, 'da rischio sopravvivenza', vuole riconvertire la propria economia. Ha versato l'equivalente di tre miliardi di dollari in un fondo per la cooperazione con i Paesi del sud del mondo, per aiutarli nell'uso di energie pulite. Punta ad andare, quindi, in scia a Usa e Ue, anche se i suoi impegni di riduzione di gas serra slittano al 2030. L'India, invece, terzo grande inquinatore al mondo, è più recalcitrante. E' disposta ad un piano di riduzione di emissioni ambizioso in proporzione agli aiuti economici che potrà ricevere.
CVF - I Paesi del Sud del mondo, dalle Filippine alle Maldive, che sono più vittime che protagonisti dell'inquinamento, vogliono essere risarciti dei danni che hanno subito a causa soprattutto di inondazioni e sono disposti a produrre energia green. A condizione di avere aiuti economici. Spingono per un accordo che preveda un aumento medio delle temperature al massino entro 1,5 gradi. Il loro potere nei negoziati è in un centinaio di voti che possono muovere nella votazione sull'accordo.
Infine, un ostacolo nei negoziati potrebbe essere rappresentato dai big del petrolio, Venezuela e Arabia Saudita in primis, che ne risentirebbero dalla prospettiva di un'economia senza combustibili fossili.