(di Angelo Di Mambro)
L'Ue ha la sua "carbon tax" alle frontiere. Le istituzioni Ue hanno raggiunto un accordo su una parte di un provvedimento nato per consentire all'industria europea di competere ad armi pari con i concorrenti esteri. Per evitare la delocalizzazione delle imprese e la perdita di posti di lavoro nel mercato dell'Unione, chi esporta verso l'Ue ferro e acciaio, cemento, alluminio, fertilizzanti, elettricità e idrogeno, dovrà sostenere lo stesso prezzo della CO2 pagato dall'industria europea. Cioè quello del mercato Ue-Ets, destinato ad aumentare visti gli ambiziosi obiettivi clima al 2030. Altri settori saranno aggiunti nei prossimi anni, fino ad avere una sovrapposizione totale con l'Ets europeo. Più che una tassa in senso stretto, quindi, un Ets applicato alle frontiere.
Alla Commissione europea spetterà gran parte dei controlli e gli introiti finiranno solo parzialmente nelle casse Ue. Si partirà a fine 2023, con l'obbligo di sola rendicontazione (senza pagare), poi il meccanismo entrerà a regime in modo graduale. Sostituirà progressivamente i certificati di emissione a costo zero che oggi sono la più importante garanzia contro la delocalizzazione. La velocità di questa transizione è uno dei punti più controversi, lasciati fuori dall'accordo di oggi. Le istituzioni europee si confronteranno sul tema nel fine settimana in una maratona negoziale sulla revisione generale del mercato della CO2 Ue.
Con garanzie come l'eliminazione graduale delle quote gratuite, la carbon tax alle frontiere sarebbe compatibile con il Wto, così da incentivare i partner commerciali ad adottare sistemi simili. La Cina ha già un mercato della CO2 largamente ispirato a quello europeo, il Giappone ha di recente avviato il suo. Ma anche California, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud danno un prezzo alle emissioni. Oltre a tutelare la propria industria, l'Ue vuole diventare l'apripista di un mercato globale del carbonio.