Questi lunghi mesi, ormai quasi un anno, alle prese con il dramma della pandemia hanno effetti collaterali non indifferenti, a cominciare dallo shock della 'reclusione' per il lockdown, al senso di incertezza verso il futuro, alla angoscia, alla precarietà. Non è ancora finita e chissà per quanto tempo questa onda lunga di preoccupazione ci accompagnerà. E' la resilienza, un termine forse abusato, a darci la bussola per affrontare questi tempi incredibili ora che la seconda ondata e il ritorno del confinamento in alcune regioni d'Italia per ora ci ha fatto ripiombare nell'esperienza vissuta nella scorsa primavera e che tutti ricordiamo benissimo.
Per molti, con il cambio dei ritmi di lavoro – o il loro venir meno – e con l’azzeramento delle attività fuori casa nel tempo libero, sono saltate le abitudini, la scansione temporale, la normale programmazione della giornata. Se, in prima battuta, ad alcuni questo nuovo assetto ha dato una sensazione di rallentamento dei ritmi, ben presto questo clima si è trasformato in una lunga attesa della fine del lockdown (e il senso di precarietà e incertezza per il suo probabile ritorno) , che ha messo in evidenza sentimenti, come la noia, la tristezza, lo smarrimento e una sottile forma di angoscia. Quest’ultima, in alcuni casi, si è trasformata in iperattività, compulsività, coazione a compiere in modo meccanico e ripetitivo delle azioni, per tenersi impegnati e, sostanzialmente, non pensare: dal lavorare ininterrottamente, a pulire a fondo l’intero immobile, a riorganizzare armadi e dispense. Tra chi ha trascorso intere giornate in casa qualcuno è caduto nella noncuranza di sé: mollettone d’ordinanza per legare i capelli non in piega, barbe lunghe e incolte, il pigiama – magari di seta – eletto a divisa, anche nel mix, sopra formale sotto pigiama, durante il lavoro agile in videochiamata. Per alcuni l'estrema lentezza e il non avere i consueti orari e impegni da rispettare ha indotto disinteresse generale, disimpegno, ma anche difficoltà di attenzione e memoria, che hanno ulteriormente provocato una non-cura della propria persona, per cui è necessario sottolineare la valenza importante dell’immagine riflessa sul piano emotivo e sull’autostima. Quello che si è detto per la prima ondata di marzo vale ancora oggi che tutto sembra tornare come allora.
Guardarsi allo specchio dopo una completa preparazione di capelli, viso e abbigliamento restituisce a sé, ma anche agli altri, positività, benessere, cura. Guardare la nostra immagine spenta e trascurata rimanda, a noi, ma anche agli altri, tristezza e pensieri negativi, che inevitabilmente intaccano l’autostima.
Lo sottolinea la psicologa Ausilio Elia in un intervento per Cosmetica Italia in cui fa il punto sui risvolti psicologici che possono diventare problematiche psicoemotive degne di nota legate alla pandemia. E' di primaria importanza la cura del se' e le attenzioni al proprio corpo e, nell’insieme, al proprio sé, nella duplice valenza esteriorità/interiorità, se pregiudizialmente rimandano vagamente all’effimero (ci sono cose più importanti si dice e ci autodiciamo), in realtà sono sostanziali e fondanti del proprio benessere-. E quindi benvenuta comodità, ma banditi i pigiami e tutto quanto ci fa regredire a qualcosa che non ci appartiene e non deve avere la meglio.
Un segno di matita che fa risaltare lo sguardo, il tocco di rossetto che illumina il viso, la barba curata, coniugano uno stimolante benessere, che diviene risorsa e ci sprona a non perdere di vista l’obiettivo, che non è solo la fine della quarantena, bensì mantenere il benessere e la salute psicoemotiva. In altre parole, resilienza, termine trasversale a vari contesti, come ingegneria, biologia, tecnologia, ma che in psicologia indica la capacità di far fronte alle avversità, ristrutturando in maniera positiva le difficoltà.
L’altro lato della medaglia, rispetto a chi si tiene impegnato, con il lavoro o con altre attività, per mantenere la mente occupata e non pensare, o pensare il meno possibile, alla contemporaneità, è il fenomeno che ha fatto coniare il neologismo “infodemia”: la circolazione di un’eccessiva quantità di informazioni sul web e sui social network, non sempre verificate e con fonti certe o attendibili, che rende difficile orientarsi su un determinato argomento. Ci si affida a “Dr. Google” per fare incetta di informazioni e, cercando di dipanare una complicata matassa, si arriva – al contrario – alla distorsione della realtà. Unico risultato finale: il crescere della paura. La ricerca incessante di informazioni, infatti, ha contribuito a un importante incremento della preoccupazione, comprensibilmente già presente in molte persone a causa dei dati scoraggianti divulgati nei bollettini giornalieri.
Consultare gli aggiornamenti, se fatto con una cadenza misurata, circa una volta al giorno, è un utile modo per farsi un’idea di ciò che accade, ma fatto eccessivamente, per alcuni anche una volta ogni pochi minuti, produce una tensione che finisce con il neutralizzare il buonsenso, facendo esplodere quella che è ormai nota come “Sindrome della capanna”. Conosciuta già dagli inizi del ‘900 in America e tornata in auge durante la pandemia, fa riferimento al senso di smarrimento misto alla sfiducia verso il prossimo, che fa vivere il rimanere in casa, anche quando non sarà più strettamente consigliato o richiesto, come una valida soluzione perché lì ci si percepisce al sicuro e protetti.
Effetti collaterali del lockdown, quali sono e perchè è prioritaria la cura del se'
La pandemia ci angoscia, la non-cura, il disimpegno non ci salveranno
- di A.M.
- 18 novembre 2020
- 00:07