(ANSA) - ROMA - Un semplice esame di laboratorio per diagnosticare e predire la gravità di una malattia immunitaria, la linfoistiocitosi emofagocitica (Hlh) secondaria, rara e grave sindrome iperinfiammatoria, fino a oggi molto difficile da riconoscere. È ora possibile grazie a uno studio condotto dal Bambino Gesù che ha individuato una sottopopolazione di linfociti T che è molto aumentata nei pazienti con Hlh secondaria ed è in grado di distinguere tali pazienti da quelli con malattie autoinfiammatorie.
"Una scoperta - sottolinea Fabrizio De Benedetti, responsabile di Reumatologia dell'Ospedale e corresponding author della ricerca - che ha implicazioni cliniche rilevanti che cambieranno la diagnosi e la gestione dei pazienti con varie forme di Hlh". I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Blood. La linfoistiocitosi emofagocitica è una malattia caratterizzata da un'eccessiva attivazione dei macrofagi, le cellule spazzino che abitualmente eliminano le cellule infettate, ma che in questa malattia eliminano anche le cellule sane. Questo porta a un'iperinfiammazione sistemica e a insufficienza multiorgano. È una patologia che può essere mortale se non diagnostica e trattata per tempo. Per questo è importante riconoscerla subito.
Lo studio condotto dall'area di ricerca di Immunologia in collaborazione con quella di Oncoematologia ha dimostrato che nel sangue dei pazienti con Hlh secondaria esiste una sottopopolazione di linfociti T che consente di diagnosticare la malattia in maniera affidabile e prevederne l'evoluzione. La ricerca è stata condotta sulle cellule del sangue periferico di 99 pazienti pediatrici, di cui 46 con Hlh secondaria. I ricercatori hanno inoltre identificato una nuova sottopopolazione cellulare di linfociti T(chiamata CD4dimCD8+), il cui numero elevato nel sangue predice la gravità della Hlh secondaria. Più questa sottopopolazione cellulare è numerosa, più grave sarà l'esito prognostico. "Uno degli aspetti più importanti dei risultati ottenuti con questo studio - spiega Giusi Prencipe, coordinatrice dello studio - è l'immediata traslazionalità. È possibile trasferire subito i risultati nella pratica clinica a tutto vantaggio dei bambini e delle famiglie".
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