Il gruppo francese, precisa Comolli, è un colosso sul mercato europeo, già proprietario del sale della Camargue e di altre saline marittime francesi, oltre che del 100% di Cis-Compagnia Italiana Sali, operante a Porto Viro (Rovigo) con capannoni e area di stoccaggio per 60.000 mq che ricevono via mare "sali" dalle miniere francesi, dalle saline dell'Atlantico alle 4 sedi in Spagna alle 3 in Tunisia. Lavora da 4 a 6 milioni di tonnellate all'anno, pari a quasi 3 volte la totale produzione italiana.
"Il passaggio di mano ai francesi è un altro esempio di poco interesse nazionale - conclude Comolli -, per l'incapacità di riconoscere il valore strategico nazionale di una commodity soprattutto legata al made in Italy e al turismo enogastronomico. Passa di mano, nel silenzio, la salina pugliese, che da sola può produrre ottimo sale integrale e iodato per circa 1 milione di tonnellate all'anno, con il 97-98% di purezza di cloruro sodico, col rischio di lasciare a casa 20-30 lavoratori".
Il sale italiano, stima l'esperto di food economy, vale 125-135 milioni di euro l'anno all'origine, che diventano circa 200 milioni come fatturato finale al consumo. "Margini reddituali stretti, prodotto senza valore aggiunto e prodotto commodity sono i punti deboli. Un altro problema è l'esportazione di sale in Italia, che vale 70 milioni di euro, pari al 30%, di cui parte finisce anche, senza chiara origine e tracciabilità, sulle tavole degli italiani. Questo nasconde e annacqua ancor più la origine nazionale. Credo che un po' di chiarezza per il consumatore finale sia obbligatoria, urgente", chiede Comolli.
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