COMPLESSO DEL VITTORIANO (ROMA) - Circa cento opere raccontano l'arte visionaria di Antonio Ligabue in una grande mostra allestita fino all'8 gennaio a Roma, negli spazi del Complesso del Vittoriano. Un excursus storico e critico sull'attualità dell'opera di questo artista dalla vita tormentata, abbandonato nell'infanzia e autodidatta, eppure dotato di una straordinaria capacità di trasfigurazione, riconosciuto con il tempo e dopo un doloroso riscatto tra le figure più interessanti del '900. Intitolata 'Antonio Ligabue', l'importante rassegna è stata promossa dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri e dal comune di Gualtieri e organizzata da Arthemisia Group e Creare-organizzare-realizzare. La curatela, come nelle celebrazioni del 2015 per i 50 anni dalla scomparsa, è stata invece affidata a Sandro Parmiggiani (direttore della Fondazione stessa) e a Sergio Negri (presidente del comitato scientifico), che insieme hanno ideato un percorso espositivo in grado di ricostruire la vicenda artistica e privata del pittore, oggetto spesso di derisioni crudeli che poi hanno lasciato il passo a grandi apprezzamenti.
Originario della Svizzera tedesca, Ligabue, dopo essere stato espulso dal suo paese natale nel 1919, visse fino alla morte a Gualtieri, sulle rive del Po. Lì, nel 1929, incontra Renato Marino Mazzacurati, artista della Scuola Romana e poliedrico esponente di correnti artistiche quali il cubismo, l'espressionismo e il realismo, che ne comprende le potenzialità e gli insegna l'uso dei colori a olio, guidandolo verso la piena valorizzazione del suo talento. Con singolare slancio espressionista e con una purezza di visione tipica dello stupore di chi va scoprendo i segreti del mondo, Ligabue si dedica alla rappresentazione della lotta per la sopravvivenza degli animali della foresta. Si raffigura in centinaia di autoritratti, cogliendo il proprio tormento e amarezza, causati in gran parte dall'ostilità e dall'incomprensione del suo ambiente. Un po' di serenità la trova solo quando immortala sulla tela il lavoro nei campi e ancora gli animali, questa volta domestici, che sente fratelli (in particolare, i cani).
La mostra è articolata in tre sezioni cronologiche, che corrispondono ai tre periodi in cui è suddivisa la produzione artistica di Ligabue. Si comincia con le opere realizzate tra il 1928 e il 1939, connotate da una notevole incertezza grafica e coloristica e dall'impianto formale semplice. Già in questo primo periodo, però, è presente uno dei temi più ricorrenti della sua poetica, ovviamente gli animali (come in 'Caccia grossa' del 1929 e 'Leopardo con gazzelle' del 1928-1929), delineati in un'ottica primitivistica dai tratti statici e ingenui, ma che lasciano già trasparire una straordinaria sensibilità inventiva. Elemento distintivo e di grandissimo pregio delle opere successive, ideate tra il 1939 e 1952, è invece la connotazione estetica che ora assume valori altamente qualificanti sia nelle cromie sia nell'elaborazione di forme più complesse. Fra i diversi elementi espressivi della nuova impostazione stilistica, protagonista indiscusso è appunto il colore, steso con tonalità particolarmente calde e impreziosito da una materia molto spessa e brillante. Avvicinandosi alla pienezza della sua capacità creativa, Ligabue esprime in modo sempre più efficace il dramma dell'esistenza attraverso la configurazione dell'aggressività animale (come in 'Aquila' con volpe del 1949-1950). La terza sezione si riferisce all'ultimo decennio della produzione dell'artista, dal 1952 al 1962, quando, colpito da una paresi, resterà invalido sino alla morte, avvenuta nel 1965.
Ecco dunque i celebri autoritratti (tra i quali 'Autoritratto con berretto da motociclista' del 1954-1955), in cui il pittore racconta impietosamente il suo volto affermando costantemente l'identità tra uomo e artista. In questo periodo si assiste anche a una graduale riduzione della scaletta dei toni, per favorire una più sobria ed efficace visione figurativa, mentre l'attenzione è pienamente rivolta verso concezioni stilistiche nuove. L'argomento trattato assume infatti centralità assoluta rispetto all'espressione pittorica e allo svolgimento scenico, tanto da far sentire al pittore la necessità di ampliare al massimo le dimensioni del soggetto in primo piano, spesso sottoposto a deformazione figurativa, per caricarlo di una maggiore espressività estetica. Basti pensare ad 'Autoritratto con moto, cavalletto e paesaggio' del 1953-1954 e 'Vedova nera con volatile' del 1955-1956.
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