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La Liberazione nel ricordo di chi c'era

La testimonianza di Marcello Cambi - da 'Ricordi di scuola', inedito

'La mia Liberazione' di Marcello Cambi (da 'Ricordi di scuola', inedito).

Noi siamo quelli che, bambini, durante la guerra, andavamo di notte dentro i fossati, in aperta campagna, distesi a terra, tutti in fila, in assoluto silenzio, finché l’allarme aereo non cessava e si tornava nelle camerate.
“Ma che cosa succede – diceva uno che era ancora più piccolo di me e sembrava uno scricciolo – perché siamo qui di notte? Ci fanno giocare anche a quest’ora?” “Ecco le fortezze volanti …..” : quello davanti a me riconosceva gli aerei dal rumore, che poi era sempre quello, profondo, chiassoso, lontano e vicino, scompariva e ritornava, ma forse era solo l’eco perché, quando gli apparecchi ti passavano sopra, andavano oltre e poi ricominciava il rodeo.“Zitti, non vi muovete, non abbiate paura, non parlate”, si raccomandava una delle suore del collegio che ci assistevano, anche lei in fila, a terra, come noi.

Io, lì per lì, non mi sono mai reso bene conto di ciò che succedeva, se si poteva morire, se si doveva piangere… Mi dava noia non sapere quando si poteva tornare nei nostri lettini. L’urlo della sirena era fastidioso perché interrompeva le nostre abitudini e si doveva correre nei campi con le monache che gridavano …correte …correte. Ma la paura no. Nemmeno quando, una notte, una cannonata ci portò via mezzo collegio, la parte alta dell’edificio dove erano custoditi i nostri vestiti, le nostre camiciole, ognuna con il nostro numero perché, dopo lavate, non si facesse troppa confusione nella riconsegna. La mattina dopo tutte le nostre cose erano disseminate in un largo raggio, addirittura nei campi. Mentre alcune persone si disperavano per quel disastro e dicevano …guarda qui … guarda qui…a noi più piccoli ci scappava da ridere perché la scena era buffa: ognuno cercava la sua roba e la radunava in un affannarsi inutile perché quei cenci erano mezzi bruciati e pieni di polvere. Non servivano nemmeno a noi, che pure avremmo indossato di tutto.

In questi istituti, dove alloggiavano tanti giovani, alcuni proprio fanciulli, provenienti da luoghi diversi, con le difficoltà, i disagi, i problemi immani che assillavano tutti ovunque, uno stuolo di santi (sacerdoti, suore, vigilanti, prefetti, cioè ragazzi più grandi) ha fatto il miracolo di portarci tutti vivi, sani, nemmeno una sbucciatura, alla fine della guerra.

Chissà dove sono ora quegli angeli, uno dei quali, la sera in cui mi cadde quasi addosso un oggetto di ferro insieme ad un sibilo acutissimo (“è uno spezzone incendiario”, disse uno nel buio), pianse di nascosto dalla paura, senza farsi vedere, perché io non mi preoccupassi.

Poi, con le parole Resistenza e Liberazione arrivarono le feste, che noi accogliemmo ballando sui letti. Alla fine, alla fine di tutto, dopo gli armistizi, le macerie, le gomme americane e quelle piccole cioccolate, mai scordate, che i soldati ci buttavano dai camion, noi avevamo bisogno di riprenderci e di capire.

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